Per gioco, per amore o per interesse personale, ciascuno di noi ha probabilmente provato, almeno una volta nella vita, a coltivare una collezione. La sensazione di portare avanti e custodire una raccolta, che sia monotematica o varia, alimentandola per consegnarla forse ai posteri. E magari sarà durata molto meno di quanto ci saremmo aspettati o avremmo desiderato.
Milano racchiude invece una serie di musei, fondazioni, collezioni private di totale unicità: dalle raccolte di famiglie nobili, agli studi di designer e architetti che hanno tramandato le loro idee e i loro progetti, fino alle pietre miliari della cultura della città o a veri e propri luoghi di riflessione e contemplazione, artistica o introspettiva. Che si tratti di quadri, oggetti o anche solo memorabilia, l’intera città è disseminata di occasioni per conoscere più a fondo animi preziosi. Basta solo trovare la porta giusta.
Dal 1905 al 1911, l’architetto Luca Beltrami, già protagonista del recupero del Castello Sforzesco, viene incaricato di dirigere i lavori per la costruzione della sede della Banca Commerciale Italiana; per farlo, peraltro, dovrà suo malgrado acconsentire all’abbattimento della chiesa di San Giovanni Decollato, che sorgeva alle spalle di piazza San Fedele. Il risultato fu un gioiello di edilizia contemporanea, al tempo impregnata delle fantasie della Belle Epoque; nel corso dei decenni, con le varie denominazioni e passaggi di mano si è arrivati alla proprietà dell’edificio da parte di Intesa Sanpaolo, che ha poi trasformato la sua sede storica in un meraviglioso museo.
Si tratta di Gallerie d’Italia, orgoglio espositivo tra le più rinomate collezioni private visitabili, presente anche a Napoli, Torino e Vicenza (la prima in ordine di tempi, 1999). La sede di Milano, inaugurata nel 2011, adiacente a Palazzo Marino e dirimpettaia del Teatro alla Scala, custodisce oggi opere dell’ Ottocento, inclusi pezzi della Fondazione Cariplo, e opere della seconda metà del Novecento, nel cosiddetto Cantiere del ‘900: tutto, rigorosamente italiano. Ci si perde nel meraviglioso atrio d’ingresso, impreziosito da colonne in marmo e soffitto in vetro (costantemente innaffiato perché non congeli o si espanda con il calore, a seconda delle stagioni), ma è al piano interrato che si cela la chicca assoluta.
Scendendo i gradini di un imponente scalone, si accede a quella che un tempo era l’area dedicata alle cassette di sicurezza della crema della società milanese: dove oggi si usufruisce del guardaroba (borse da lasciare obbligatoriamente), all’epoca erano scranni e vestiboli dove i correntisti trovavano la privacy per poter armeggiare con i loro beni. Le cassette venivano poi depositate nel caveau, che oggi non ha cambiato indirizzo: il museo lo utilizza come deposito e al tempo stesso sala espositiva, avendo così la possibilità di ruotare le opere presenti ai piani superiori, e contemporaneamente permettere ai visitatori un’esperienza unica.
Come giustamente ammette la guida, tra sala e piano soppalcato del caveau non esiste un percorso o una direzione: quadri, sculture e installazioni sono sostituite o alternate con cadenza regolare, e l’unico criterio con cui avviene questa rotazione è lo spazio. Dove c’è agio per inserire un’opera, la si mette, per cui si possono trovare gli squarci di Lucio Fontana o le tele del primo De Chirico, indistantemente. La visita (qui per informazioni) è permessa una volta al mese, in tre turni di un’ora, a un numero chiuso di ospiti; la temperatura del caveau deve infatti rimanere entro certi parametri, perché “l’arte contemporanea richiede molta più manutenzione rispetto a quella classica”. Ed è una passeggiata sognante tra pezzi di valore inestimabile e immaginazione che porta a un secolo fa, quando qui accedevano solo i custodi ed era uno dei luoghi più segreti della città.
(foto da https://gallerieditalia.com/it/)
Esempio di passione e cultura come pochi altri in città, forse nel mondo. Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, fratelli aristocratici , avvocati e architetti, coltivarono il loro sogno di abitare in un palazzo rinascimentale, nel pieno scoppiare dell’Ottocento colto e innovativo.
Ristrutturarono quello ereditato dalla famiglia, arricchendolo con una collezione di arte e oggettistica del Quattrocento e Cinquecento di strepitoso valore. Gli eredi dei fratelli hanno vissuto qui fino al 1975 (in tutto quattro generazioni), anno in cui cedettero l’immobile alla Regione Lombardia. La fondazione da loro portata avanti contribuì ad aprire il museo nel 1994, da allora uno dei gioielli più straordinari che Milano abbia da offrire.
Il piano nobile è un labirinto ordinato impreziosito da affreschi, arazzi, armi, suppellettili, intarsi, vetrate, in stanze enormi che trasudano bellezza. Tutto curato e custodito con attenzione educata, per tramandare la storia prima ancora che per alzare il blasone di famiglia.
Il Teatro alla Scala davvero non ha bisogno di alcuna presentazione (ma per qualsiasi necessità di rinfrescare la memoria, eccovi serviti). Uno dei simboli della milanesità per eccellenza, si avvale anche di un angolino che troppo spesso passa inosservato, e che invece meriterebbe una visita senza indugio. Esattamente accanto all’ingresso del Teatro si aprono infatti le porte del Museo Teatrale: un portale che permette un salto indietro nel tempo, per ripercorrere i fasti di uno dei luoghi d’arte e costume più ricercati del mondo, palcoscenico per nomi destinati all’immortalità e ambientazione di momenti consegnati alla storia.
È lì dal 1913: da quando cioè un gruppo di privati cittadini milanesi vinse addirittura la concorrenza del magnate americano JP Morgan (quello della banca), che si dimostrò un insospettabile gentiluomo e rinunciò ad acquistare la collezione del francese Jules Sambon, il primo nucleo del Museo. Per finanziare l’acquisto, anche il Governo italiano stanziò dei fondi. Superata la biglietteria si sale al Ridotto Toscanini, il maestoso salone destinato al rinfresco nelle pause tra gli atti degli spettacoli. Ambiente di sontuosa bellezza, sufficiente a inebriarsi d’eleganza tra pavimento in parquet e i busti dei protagonisti dei secoli del Teatro, tra cui spicca, ovviamente, quello del leggendario direttore d’orchestra Arturo Toscanini. Da qui si può accedere a uno dei quattro palchi che affacciano direttamente all’interno del Teatro: si può così vivere l’esperienza di godere della vista privilegiata sul platea e proscenio (non si può accedere con prove in corso), e l’eventuale particolarità di assistere all’allestimento delle scenografie.
La metà opposta del piano è dedicata al Museo vero e proprio: sale concentriche dove sono raccolte sculture, dipinti, memorabilia d’ogni sorta. Dalle celebrazioni dell’indimenticato e indimenticabile Giuseppe Verdi, adorato dal pubblico milanese tanto da fare di tutto perché riposasse in pace, al bronzo che ritrae il tenore Enrico Caruso; passando per carte da gioco ritrovate tra i palchi, strumenti d’epoca (meravigliosa la Spinetta del ‘600, realizzata a Napoli da Honofrio Guaracino), abiti di scena, marionette, ceramiche e ancora di più. Tutto sagacemente spiegato da pannelli interattivi. L’ultimo piano permette la vista della sezione più moderna del Teatro, ultimata a inizio anni Duemila; mentre annessa al Teatro è la biblioteca “Livia Simoni”, oltre 150.000 volumi dedicati al teatro o contenenti partiture musicali. È il caso di dirlo: uno spettacolo che vale il prezzo del biglietto.
(La foto è di Francesco Maria Colombo – fonte museoscala.org)
Un volo d’angelo nel pensiero di uno dei designer e architetti più significativi dell’epoca moderna. Franco Albini (1905-1977) fu urbanista, professore, visionario: artigiano, preferiva farsi chiamare, contribuì a innovare la figura del progettista, fondendo funzionalità e arte nei suoi oggetti del quotidiano, e arrivando a rivoluzionare la vivibilità di città come Reggio Emilia, di cui firmò il piano regolatore, e Milano, della quale supervisionò piano regolatore e prima linea della metropolitana.
Scomporre, cogliere l’essenza, ricomporre, verificare, trovare la ragione sociale: sono i cinque capisaldi del metodo Albini, oggi riproposto dal figlio Marco e dalla nipote Paola, che nel 2007 hanno aperto la Fondazione Albini. Funge da archivio (più di trentamila tra disegni, foto, libri, modelli), studio, accademia, luogo per eventi e rappresentazioni teatrali (scritte e interpretate dalla stessa Paola), e con cadenza regolare è sede di straordinarie visite guidate, che dal puro design arrivano alla filosofia di vita, alla concezione delle socialità e alla professionalità da rispettare.
Gian Giacomo Poldi Pezzoli fu il rampollo di una famiglia di sterminata ricchezza, che aveva in gestione l’esazione delle tasse a Milano, sotto il dominio austriaco. Proprio contro gli occupanti, Poldi Pezzoli si schierò durante le Cinque Giornate di Milano, che una volta represse lo costrinsero a espatriare in giro per l’Europa. Rientrerà nel 1846, per dare vita alla sua collezione d’arte e oggettistica, allestendo la sua stessa casa per ospitare amici, ammiratori ed esperti tra i suoi beni.
Morì a neanche sessant’anni nel 1879, e dispose che la sua casa diventasse una Fondazione Artistica: all’apertura ufficiale, nel 1881, in due giorni affluirono quasi quattromila visitatori. Quasi un secolo e mezzo dopo, il Museo Poldi Pezzoli continua a ipnotizzare gli ospiti con una dozzina di stanze ricolme di preziosità dipinte, scolpite, intarsiate, disegnate (è custodita qui la leggendaria Dama del Pollaiolo, che fa da modello per la silhouette sulle bandiere all’ingresso). Al piano terra, un’armeria, la prima sala allestita dallo stesso Gian Giacomo, danneggiata durante la Seconda Guerra Mondiale e poi rimodernata da Arnaldo Pomodoro negli anni ’70. Basterebbe la fontana alla base dello scalone, mozzafiato, a giustificare una visita (qui i biglietti). Ma fidatevi, andare oltre varrà la pena.
Un edificio che risale ai primi del ‘400, con una cantina i cui mattoni crudi sono datati addirittura all’ottavo secolo. Basterebbe questo per una visita, ma le sorti del palazzo rivelano un contenuto ancora più meritevole: fu acquistato nel 1978 da Emilio Carlo Mangini, imprenditore edile che aveva fatto una colossale fortuna durante la seconda guerra mondiale, monopolizzando il mercato del caffè da destinare alle truppe.
Di visionaria sensibilità, Mangini dedicò buonissima parte del suo tempo a una collezione privata, arricchendola dei più svariati oggetti recuperati tra mercatini, case d’asta e commercianti. Arrivò ad ammassare più di tremilaseicento articoli, fino ad adibire il sotterraneo e il primo piano del suo palazzo a vero e proprio museo, continuando ad abitare i piani superiori.
Oggi è possibile visitare la collezione due volte a settimana, e ne vale la pena per un tuffo nella quotidianità del passato: armi, specchi, rasoi, giocattoli, oggetti religiosi, macchine da scrivere, kit da toeletta. Ogni aspetto del quotidiano è custodito nelle teche di tre ampie sale, e descrivono la vita dell’uomo comune, con pezzi che arrivano fino al Cinquecento. La bellezza infinita di ieri, da rivivere in un’ora di giro, oggi.
Se non siete curiosi, lasciate stare. Achille Castiglioni, scomparso nel 2002 a 83 anni, è stato un progettista di vena geniale e innovativa, eccezionale cantore dei suoi tempi. “Risolveva problemi del quotidiano”, racconta la figlia Giovanna, oggi guida nelle travolgenti visite alla Fondazione Achille Castiglioni (aperta nel 2011). E lo faceva ispirandosi all’esterno, al casalingo e al futuro: riuscì a “entrare silenziosamente nelle case degli italiani, con idee intelligenti e a prezzo abbordabile”.
Tu tienilo lì, che poi matura. Oggetti con funzioni autonome, reinventati per utilizzo, forma o anima, superbamente incastrati nelle file di un’Italia che andava evolvendo, e che oggi continuano a rimanere freschissimi e di gusto. La Fondazione è nata con lo “scopo principale di catalogare, ordinare, archiviare, digitalizzare i progetti, i disegni, le foto, i modelli, i film, le conferenze, gli oggetti, i libri, le riviste, insomma tutto il mondo dentro il quale Achille ha lavorato durante più di 60 anni di attività”; la visita consiste di un’ora che va via velocissima, accompagnati dalle storie di Giovanna e dalle idee di Achille Castiglioni, che a distanza di più di mezzo secolo non smettono di stupire.
D’amore e d’arte. Nel 1927, l’ingegnere Antonio Boschi sposò Marieda Di Stefano, figlia di un importante collezionista e a sua volta ceramista di livello. S’erano conosciuti in vacanza a Courmayeur, e decisero per le nozze infischiandosene del costume dell’epoca, che guardava storto le coppie che non passavano prima un periodo di fidanzamento.
La loro collezione, oggi parte del circuito Case Museo di Milano, racconta della passione condivisa per il bello, vissuto a tutto tondo nella decina di stanze di cui si compone la casa (il palazzo fu disegnato da Piero Portaluppi, leggendario architetto milanese). Fu aperta nel 2003, dopo che nel 1988, alla morte di Antonio, il Comune di Milano aveva ereditato i beni. La visita è un giro in ordine cronologico, dal primo Novecento fino agli anni ’60, e comprende trecento, circa, degli oltre duemila pezzi di cui la coppia era in possesso. De Chirico, Piero Manzoni, Lucio Fontana e numerosi altri luminari dell’arte controversa in Italia: sono tutti qui, tra le pareti che un tempo erano vissute da chi li amava, e si amava.
Avercelo avuto, un professore così, all’università. Francesco Messina è stato uno dei più importanti esponenti della scultura italiana, oltre ad aver diretto l’Accademia di Brera dal 1934 alla fine degli anni ’60. Prossimo alla pensione, ottenne dal Comune di Milano una chiesa sconsacrata, che a sue spese ristrutturò e rese il suo studio.
Nel 1974 convertì lo spazio, che spesso utilizzava come abitazione, in vero e proprio museo. Novantacinquenne, lo lasciò in eredità alla sua morte nel 1995, insieme a buonissima parte del suo patrimonio artistico. Oggi lo Studio Museo Francesco Messina è una gradevolissima parentesi di tre piani (il superiore corrisponde agli spazi privati dell’artista) alle spalle della trafficata via Torino, e ospita una collezione permanente di Messina, insieme a temporanee di artisti italiani e stranieri.
Ludovico Magistretti è stato un disegnatore e progettista di vibrante talento, perno dell’esplosione del design italiano nel secondo dopoguerra. Ereditò passione e spinta dal padre, Pier Giulio, e andò affermandosi come mente brillante nell’esplosivo panorama artistico e urbanistico tra gli anni Sessanta e Novanta. “Il Vico”, come fu conosciuto dall’Italia e dal mondo, adorava definirsi “architetto e designer, non manager”: per questo scelse di trascorrere oltre mezzo secolo nel suo piccolo studio di via Bellini, con un paio di persone al suo fianco e il suo stile asciutto, diretto, concreto a impregnare il suo lavoro. Le leggende tramandate raccontano di svariati progetti “realizzati al telefono”.
Nel 2010, quattro anni dopo la scomparsa dell’ottantaseienne Vico, lo studio è stato trasformato in Fondazione dalla sua famiglia (già nel 2007 era stato dichiarato Patrimonio di Interesse Nazionale): gli stessi minimi spazi che hanno ospitato idee d’avanguardia e innovazione, oggi sono un percorso dettagliato trai bozzetti, le fotografie, gli appunti salaci e gli aneddoti di Magistretti, letteralmente invasi dagli studenti universitari che cercano ispirazione o informazioni dallo sterminato archivio della Fondazione.
La visita è gratuita, guidata dalla nipote di Vico, Margherita, e permette di addentrarsi nella filosofia de “l’architetto della borghesia milanese”, che oltre a edifici privati e ville di alto profilo, ha messo la sua firma su oggetti del quotidiano come la lampada Eclisse, e luoghi divenuti tessuto urbano milanese, come il deposito della metropolitana di Famagosta.
L’imponente Ca’ Granda, già sede del Policlinico di Milano e oggi anche quartier generale dell’Università, fu voluta da Francesco Sforza nel 1456, come polo di medicina generale della città. Fu realizzata dal Filarete (che lavorò anche alla Basilica di San Pietro, insomma non l’ultimo arrivato) e nel tempo pare abbia ospitato oltre mezzo milione di abitanti sepolti nel suo sottosuolo, fino al 1695, quando fu vietato di inumare i defunti all’interno delle mura cittadine. Nel corso dei secoli ha raccolto storie, donazioni e ricerche, che oggi, anche grazie all’aiuto del Touring Club Italiano, è possibile riscoprire.
L’ingresso è gratuito e libero. All’ingresso si viene investiti dallo splendore del Gonfalone d’Onore: una scultura di seta e metallo, realizzata dall’architetto Gio Ponti nel 1935, autentico pezzo inestimabile e unico di bellezza italiana. Segue una sequenza di due sale, che ospita esclusivamente ritratti: sono i benefattori dell’Ospedale, personaggi di spicco della vita milanese che in vita, o in eredità, hanno contribuito al mantenimento e alla progressione della struttura sanitaria. Ed è curioso osservarne la sequenza, dai panneggi altisonanti del Seicento, alle forme moderne e fluide del ventunesimo secolo, a opera dell’Accademia di Brera.
Il corridoio che costeggia i ritratti ospita invece teche e scaffali, con un’esposizione di strumenti medici utilizzati nei decenni scorsi: dalle apparecchiature per TAC ed elettrocardiogrammi, fino agli inquietanti utensili che servivano per le operazioni di ostetricia, una viaggio nel tempo che dimostra come, per fortuna, la tecnologia abbia aiutato il benessere dell’umanità. L’ultima tappa è la cripta che si apre oltre il cortiletto in fondo: è posta al di sotto della Chiesa dell’Annunciata, e oltre a un percorso divulgativo su archeologia e scienza, ospita lapidari di metà Ottocento. La Ca’ Granda, infatti, fu riaperta come sepolcreto durante le Cinque Giornate di Milano, e accolse i 141 caduti in battaglia, prima del loro trasferimento in Piazza Cinque Giornate, sotto il monumento a loro dedicato.
La Poetessa dei Navigli, una delle figure più ricche, drammatiche e profonde della cultura italiana, rivive nel piccolo edificio che fu la sua tabaccheria preferita. Alda Merini ha segnato con magia e parole la storia della letteratura, facendo scorrere in versi la sua esistenza talentuosa, tormentata e mistica. Lo Spazio è curato dalla Direttrice Artistica (già drammaturga e regista) Donatella Massimilla, amica della Merini: “Veniva a trovarmi a San Vittore, dove io curo la compagnia teatrale CETEC dentro/fuori San Vittore. Si fermava principalmente a fumare”.
Al primo piano dello Spazio Alda Merini è stata ricostruita la sua abitazione (che era in Ripa di Porta Ticinese 74, oggi non più esistente, ma segnalata con una targa), con la quasi totalità del mobilio originale: dalla macchina da scrivere al comodino, uno sforzo di riportare attuali il disordine nel quale i pensieri e le idee della Merini prendevano la loro forma unica. Il Muro degli Angeli, dove la poetessa scriveva con il rossetto frasi e numeri, e il telefono a filo, con cui dettava i suoi aforismi.
Donatella ripercorre i momenti salienti della vita della Merini, guidando le visite in versi e le attività di uno Spazio che merita ben più considerazione di quanta non ne abbia al momento. Per sostenerlo, basta dare un occhio al sito dedicato e comprenderne la missione, gli eventi e le storie.
Ernesto Treccani fu figlio di Giovanni, Senatore della Repubblica e fondatore dell’omonimo Istituto che pubblico la prima edizione (e le successive nove estensioni) dell’Enciclopedia Italiana. Fu il figlio “alternativo”, come ci ha raccontato la curatrice Deianira Amico, in netto contrasto con il padre soprattutto per ideologia politica.
A diciott’anni ottenne di aprire e dirigere una rivista, che chiamò Corrente di vita giovanile: fu la culla di un importante movimento artistico e culturale, che coinvolse nomi noti come Renato Guttuso, e raccolse un certo rilievo per energie antifasciste, nonostante la prematura chiusura nel ’40 a causa della Seconda Guerra Mondiale.
Treccani continuò come pittore, scultore, disegnatore: nel ’78 aprì la Fondazione Corrente, sette anni dopo trasformò parte della palazzina in cui abitava in casa museo. Morì nel 2009, a ottantanove anni: oggi la Fondazione prosegue il suo lavoro, con i figli di Ernesto nel consiglio di amministrazione. Raccoglie circa 250 opere grafiche di Treccani e artisti del gruppo Corrente, un fondo fotografico e un archivio sonoro, con registrazioni di conferenze e lezioni su arte, politica e cultura.
La Fondazione ospita mostre temporanee e incontri al piano inferiore, attirando circa duemila visitatori l’anno. Una sala biblioteca, che ospita i volumi di proprietà di Ernesto, e al piano superiore una stupenda area espositiva, con quello che è forse il suo quadro più famoso: Popolo di Volti, iniziato nel giorno dei funerali per la strage di Piazza Fontana, e concluso dopo sei anni.
È liberamente accessibile tre giorni a settimana, e merita una visita per scoprire il fervore creativo e sociale di cui si rese protagonista un personaggio istrionico, profondo e sensibile come Treccani, che realizzò peraltro l’opera all’ingresso: l’intera facciata è infatti un’installazione di mattonelle a forma di rondini, “animale che gli ricordava l’uomo in qualche modo, migratore, socievole”, e dà appunto il soprannome alla Casa delle Rondini.
Verso il 1760, presso il Palazzo di Brera, l’allora insediato Ordine dei Gesuiti diede avvio alle ricerche e ai lavori dedicati all’astronomia, per la prima volta a Milano. I religiosi erano già noti per il loro studio della volta celeste, tanto da fondare osservatori in mezza Europa, compresi quelli di Praga, Lione, Roma. A Milano il compito toccò a padre Ruggero Boscovich, cui si deve la costruzione della torretta ottagonale che ancora si vede spiccare sui tetti del Palazzo. Ancora oggi, l’Osservatorio Astronomico di Brera è la più antica istituzione scientifica della città: quando gli austriaci entrarono di gran pompa in città, l’Imperatrice Maria Teresa si impegnò perché realtà lungimiranti come l’Accademia di Belle Arti e la biblioteca Braidense prendessero piede. Fece chiudere qualsiasi altro ufficio degno di nota, ma conservò invece l’Osservatorio, utile alla popolazione per contare il passare delle ore, la misurazione delle condizioni meterologiche, la topografia.
Dal 1862 al 1900, Giovanni Virginio Schiaparelli fu direttore dell’Osservatorio: fu il primo al mondo a dedicarsi profondamente all’osservazione di Marte, che descrisse minuziosamente e tenne d’occhio grazie al prodigioso telescopio che l’ingegnere Georg Merz fece costruire per lui. 218 mm di diametro per la lente, oltre tre metri di lunghezza per il fusto: un sistema ingegneristico pregevolissimo, tutt’ora funzionante e perfettamente integro. Non è più utilizzato per le osservazioni, ma rimane il pezzo forte del percorso del Museo Astronomico di Brera, nello stesso Palazzo; grazie agli sforzi del Touring Club, è possibile visitare la galleria che raccoglie strumenti datati e affascinanti, scoprendo le peculiarità e sorprendendosi del lavoro che più di duecento anni fa già portava a risultati di precisione infinitesimale.
Come culmine del percorso, si può accedere alla cupola che Schiaparelli fece costruire per custodire il telescopio; in questa, lo scienziato trascorse lunghissime notti puntando verso il cielo, soggiornando spesso al piano inferiore (il sottocupola) quando troppo stanco per rientrare in casa (viveva sotto il campanile di San Marco, poco distante). Oltre al telescopio, ovviamente, il mobilio, la struttura e le pareti rotanti sono tutte originali e conservate perfettamente.
Nota: la Cupola è visitabile una volta al mese. Qui per le date e i dettagli.
A pensarci bene, non è passato nemmeno poi così tanto tempo. A calcare i corridoi in parquet qui, tra le testimonianze di quella che ancora non era Italia, partendo dalla discesa di Napoleone a inizio Ottocento (di cui è custodito il manto che fu indossato per l’incoronazione a Imperatore della Repubblica Cisalpina), passando per i moti carbonari di Mazzini, fino all’avvento di Garibaldi e dei suoi Mille, ci si rende conto che centosessant’anni o poco più sono un’inezia.
Il Museo del Risorgimento è un inno alla Storia e all’orgoglio di una nazione, che pur controversa e bistrattata porta nell’animo la fierezza di chi per essa si è battuto e spesso è morto. Fu voluto nel 1884 dai cittadini di Milano, appena vent’anni dopo l’Unità d’Italia (1861), come omaggio alla memoria dei decenni d’ardore che fecero da preludio al Regno. Dapprima custodito al Castello Sforzesco, è dal 1951 ospitato al piano terra dell’austero e bellissimo Palazzo Moriggia, costruito nel 1755 dal Piermarini (che firmò anche la Scala).
Manoscritti, abiti, simboli: c’è il primo tricolore italiano mai utilizzato come vessillo, ci sono i busti degli eroi delle battaglie che hanno segnato il tempo prima che il paese fosse davvero un paese. Combattenti e pensatori, intellettuali e guerrieri, li si incontra tutti per le quattordici sale dell’esposizione permanente. I pannelli informativi sono scritti splendidamente, per un autentico viaggio nel passato nostrano, che piaccia o meno, non andrebbe mai dimenticato.
Nel 1532, un frate veneto che in una vita precedente era stato anche nobile, fondò un istituto di assistenza per bambini abbandonati, supportato economicamente e non dà Francesco Sforza: la sede dell’orfanotrofio si trovava in una costola del Convento di San Martino, e i giovanissimi ospitati presero da allora il nome di Martinitt. La controparte femminile prese vita nel 1753, con la conversione in rosa dell’Orfanotrofio della Stella, a sua volta così chiamato perché sorto nei pressi di Santa Maria alla Stella, una chiesa oggi inesistente; le bambine furono battezzate Stelline.
Milano non si è mai tirata indietro quando s’è trattato di accogliere o dedicarsi ai meno fortunati: e dalle ceneri di un’infanzia poco agiata, ha testimoniato la forza di volontà di ragazzi e ragazze, poi divenuti uomini e donne, che hanno fatto la storia d’Italia e del mondo. Colossi come Angelo Rizzoli, dell’omonima casa editrice, e Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, erano Martinitt dei più fieri, peraltro grandissimi finanziatori degli enti di beneficenza dediti ai bambini soli.
Dal 2009, il Museo Martinitt e Stelline permette un percorso multimediale gratuito che celebra l’impegno della città per gli orfani. Dieci sale divise su due piani, collegate da rampe di scale su cui riecheggia lo scalpitare dei passi di bambini vogliosi di vivere e null’altro. Ogni stanza racconta, tramite touch screen e materiale interattivo, la storia degli istituti, le regole per poter essere ammessi (i Martinitt dovevano recare, tramite un tutore, il certificato di morte di entrambi i genitori o del padre, un certificato di sana costituzione, essere milanesi e così via), le lezioni che seguivano, le attività che svolgevano per essere avviati alla vita adulta; artigianato per i maschietti, stireria e faccende domestiche per le donzelle (erano pur sempre altri tempi).
Compiuti i diciotto anni, Martinitt e Stelline erano pronti per cercare fortuna, peraltro richiestissimi grazie all’educazione ricevuta. Ma la stragrande maggioranza di loro tornava poi agli orfanotrofi dopo tempo, per mostrare riconoscenza e fornire il proprio impegno per il sostentamento dei più giovani. Perché ricordavano bene cosa volesse dire passare di lì.
Nel 1845, Milano è colta da un’epidemia di colera (che già era stata fortunata in passato, la città). Nella preoccupazione che serpeggia, Bernardino Branca, speziale, formula insieme al dottore svedese Fernet un elisir rigenerante, corroborante, curativa. Fu un successo immediato e progressivo, che portò la famiglia Branca ad aprire il primo stabilimento produttivo nel 1860. Dal 1952 è attivo quello in via Resegone, rimasto oggi l’ultimo in Europa: da qui escono quindici milioni di bottiglie di Fernet Branca ogni anno, destinate a tutto il mondo. Fa eccezione l’Argentina, che ha uno stabilimento proprio e ne consuma addirittura cinquanta milioni, da sola: il Fernandito (Fernet e Coca-Cola) è una delle bevande nazionali.
Tutto è cambiato, in oltre un secolo, e in realtà tutto è rimasto com’è: Marco Branca, quarta generazione della famiglia, nel 1995 decise di adibire un’ala dello stabilimento a museo interno, così “che i dipendenti camminassero nella storia dell’azienda, ogni giorno”. Quattordici anni dopo, quest’area è diventata museo vero e proprio, aperto al pubblico previa regolare prenotazione (qui). Un corridoio unico da percorrere in un’ora, accompagnati dallo stesso Marco che vi porta per mano negli avvenimenti e nella visionaria lungimiranza di un’azienda divenuta globale, eppure ancora oggi a traino familiare: gli strumenti di produzione e i libri contabili, le divise del personale e i leggendari manifesti pubblicitari. E ancora, la ruota delle spezie dove trovare alcune delle ventisette componenti della ricetta (che è segreta), materiale promozionale, addirittura un’auto con tanto di aerografia che faceva da sponsor al Giro d’Italia.
Storia e modernità, comunque, dato che oggi il Fernet Branca è uno dei brindisi preferiti dalla comunità bartender, e le mitiche coins sono là in bella mostra a raccontarlo. In fondo, come ultima tappa, un’intera sezione è dedicata agli errori, per così dire, della Distilleria Branca e delle aziende concorrenti: un enorme scaffale contiene i tentativi d’imitazione del Fernet, bottiglie donate dagli stessi marchi per cementare una leadership indiscussa. E alcuni tavoli mostrano invece i prodotti che Branca ha tentato di mettere sul mercato, senza successo (oggi produce altri marchi come Vermouth Carpano, Caffè Borghetti, Grappa Candolini). Giù per le scale e si raggiungono le quattrocento botti meticolosamente controllate: è da qui che proviene uno dei prodotti italiani più riconoscibili nel mondo.
Classe 1982, Martino Lurani Cernuschi rappresenta una delle più recenti generazioni di una famiglia di nobili milanesi, presente in città addirittura dal Quattrocento. Dopo aver abitato anche a Palazzo Greppi, tra gli altri, i Lurani Cernuschi, nella figura del Conte Francesco, rilevarono il palazzo ancora oggi di proprietà dei discendenti: era di ben altra foggia in altri tempi, cancellati purtroppo dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, ma non passa di certo inosservato a camminarci accanto. Ancor meno a oltrepassarne l’ingresso, che permette di addentrarsi in un pregevolissimo cortile porticato: la meraviglia quanto mai particolare è però un piano seminterrato.
Qui, Martino Lurani Cernuschi coltiva la sua duplice passione, che si fonde in una collezione di raro pregio e competenza. Da un lato la meccanica (i meccanismi, anzi), dall’altro la musica: Martino è un avido raccoglitore di orologi di edifici pubblici e di strumenti musicali meccanici, appunto. Già talentuoso suonatore d’organo e pianoforte (completamente autodidatta), con aria dandy si aggira per un centinaio di pezzi più unici che rari, dei quali conosce specifiche tecniche, aneddoti storici e ovviamente il funzionamento, perfetto, pur trattandosi di esemplari con almeno un secolo di esperienza.
Per gli appassionati di genere si tratta di una nicchia impressionante: in un piccolissimo labirinto di carillon, organi autentici e a manovella, armonium, a pochi palmi l’uno dall’altro si trovano il pianoforte a coda automatico Steinway Welte che fu del Presidente Gronchi (con annessi rulli originali incisi da Debussy, Rachmaninov e altri) e la portentosa Violina Phonoliszt, un gioiello praticamente introvabile capace di suonare un pianoforte e tre violini simultaneamente, in perfetta orchestra. E la passione di Martino traspare chiarissima: lui che di professione gestisce alcune sezioni di una casa d’aste. Quelle di orologi e strumenti musicali d’epoca, va da sé.
Martino Lurani Cernuschi risponde celermente all’indirizzo martiluce@tiscali.it, per prendere appuntamento e visitare la collezione.
Per un viaggio attraverso decenni fumosi, personaggi da film e aneddoti da brividi. Umberto Di Donato, ex professionista di banca e finanza, ha raccolto nella sua vita oltre duemila tra macchine da scrivere e calcolatori meccanici: esemplari di ogni tipo, che spaziano dalle varianti più celebri (chi non ha mai sentito parlare di Olivetti 22?) ad autentici pezzi di storia.
Indro Montanelli, Matilde Serao, Francesco Cossiga, addirittura Ernest Hemingway: e poi ancora esemplari di fine ‘800, a tasto singolo, in arabo, cinese, stenografi. Gli strumenti di alcuni tra i nomi più influenti del Novecento della letteratura e non solo, sono custoditi qui, arrivati a Di Donato attraverso le peripezie più improbabili, e tramite lui stesso e i suoi racconti rivivono come nuove.
Il museo è estensione dell’Associazione Culturale Umberto Di Donato, senza scopo di lucro, che collabora con scuole e istituti per visite d’istruzione e attività didattiche: Di Donato organizza infatti anche corsi di scrittura cuneiforme e geroglifica. Noi consigliamo la visita guidata (qui per informazioni), per non perdere le appassionate e ricchissime spiegazioni del padrone di casa.
Sarà di certo più ridotta nelle dimensioni, rispetto alle altre metropoli europee cui viene spesso paragonata, eppure Milano non manca davvero di nulla. Per ogni momento della giornata, sia essa stressante o serena, piena o pigra, attesa o maledetta, ci sarà un luogo della città adatto a essere visitato.
Alcuni di questi vanno bene sempre. Tra palazzi storici e angoli di bellezza nascosta, si scorgono infatti dei giardini che sembrano bolle di tranquillità dove potersi rifugiare se tutt’intorno è troppo veloce, ritagliare uno spazio se invece si ricerca solo silenzio. E molti di questi scorci di quiete portano con sé storie inaspettate.
Passeggiare per le strade di Milano può rivelarsi una straordinaria caccia al tesoro. Fondata dai Romani, del cui Impero d’Occidente fu capitale, divenne poi centro culturale ed economico di un certo rilievo nel periodo Rinascimentale. Con il passare dei secoli, le nuove costruzioni si sono sovrapposte alle antiche, come spesso succede nelle città ricche di storia, senza però per fortuna cancellarle del tutto.
Gli ariosi vialoni, o le strette stradine: ogni arteria di Milano potrebbe riservarvi sorprese di incredibile bellezza, se solo saprete dove andare a cercare. I portoni più anonimi potrebbero essere scrigni di ricchezza impensabili, e chiedere il permesso a un custode potrebbe essere un lasciapassare per un viaggio nel passato. A ridosso di chiese e monasteri, all’interno di abitazioni nobiliari, o semplicemente al centro di condomini privati: i cortili e i chiostri di Milano raccontano di vite trascorse, che ancora oggi fanno sognare.
Lo sfarzo di sale affrescate, l’emozione di cortili e portici ad archi, le storie intrise di leggenda che hanno visto famiglie potenti intrecciarsi con sovrani e popolani. Milano fu centro di estrema importanza nel commercio e nella società fin dal MedioEvo, e regnanti e ricchi non persero tempo a costruirsi palazzi che ne dimostrassero l’importanza.
Scoprite allora un itinerario che vi porterà in giro per gli edifici storici, che in passato furono abitati da stirpi di valorosi, spesso poi caduti in rovina; altri ancora sono ancora di proprietà degli eredi, che con più cognomi e più interessi oggi dedicano i propri spazi privati alla valorizzazione della bellezza e del lavoro degli artisti moderni.
Perdetevi nelle immense sale da ballo, arrampicatevi sugli scaloni d’onore, percorrete i corridoi tappezzati per rivivere le atmosfere di tempi che furono, quando la brama di potere e il desiderio di cultura si fondevano in una sola, affascinante e pericolosa energia. E magari potrete chiedervi come sarebbe stato, se a vivere in quei giorni foste stati voi.
Lacrime, apparizioni, guarigioni: l’appiglio per chi crede e non ha null’altro, il dubbio per chi vuole capire di più, quando da capire c’è forse nulla. Miracoli a Milano si sono visti sin dai tempi della sua fondazione, e nel corso dei secoli le storie si sono moltiplicate.
I protagonisti sono stati dei più disparati: operai zoppi, poveri buoi, parroci con il mal di gola. A volte è un atto di speranza, altre la speranza di un atto. E anche per chi proprio non concepisce la possibilità di avvenimenti superiori, magari è una buona idea far visita in questi luoghi. Non si sa mai che si possa cambiare opinione.
L’Uomo Universale, il genio che dipinse, scolpì, costruì, progettò, sconvolse e vide oltre. Leonardo da Vinci a Milano sostò eccome (1482-1499), in una finestra di vita che gli bastò per realizzare giusto una manciata di opere destinate a segnare la cultura dell’umanità. Ci era arrivato in realtà come messo, inviato da Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, per omaggiare Ludovico il Moro con il suono di una lira progettata da Leonardo stesso (perché sì, era anche un più che discreto musicista). Rimase in quella che allora era una delle più popolose città d’Europa per dodici anni: l’assurdo capolavoro del Cenacolo rimane senza dubbio la traccia più celebre del suo passaggio qui, ma da Vinci ha disseminato per Milano svariati tasselli che contribuiscono a comporre il rompicapo della sua vita.
Ogni volta che vi verrà da pensare, come troppo spesso molti fanno, a quanto Milano sia diventata ormai solo business e schiscetta, date un occhio qui. Perché in mezzo ai grattacieli di Gae Aulenti e il delirio dello struscio in Galleria, negli spazi che il logorìo della vita moderna ha lasciato intatti, potreste trovare degli scampoli di paradiso che vi riporteranno a mille chilometri più lontano, oppure angoli, palazzi e strade che niente hanno a che fare con la città.