Qualcuno vi osserverà sempre. Dall’alto di statue immense, o dal basso dei vostri piedi. Sono anime che esistevano davvero, spiriti che continuano a vagare o semplicemente personalità ideali che i milanesi pensano bene di portare con sé e onorare, perché non si può mai sapere.
Ognuna di queste presenze, però, ha una storia. Ed è una certa magia andare a leggerne e capirne, pensando che magari domani sarete voi a voler dare le vostre idee e la vostra voce a qualcosa che al momento e là, ma ancora non è. Una presenza, appunto.
Non potrete accarezzarlo, ma non scapperà mai via da voi. E ogni volta che lo cercherete, si farà trovare per riservarvi una coccola, affettuosa anche se solo immaginaria. Nel traffico di una delle maggiori arterie della città, all’altezza del marciapiede si nasconde un gatto in ferro battuto, pronto a infilarsi trai vostri passi, se solo potesse. Non è noto il motivo della sua presenza lì: c’è chi sostiene che non troppo tempo fa, nelle inferriate delle finestre adiacenti fossero scolpiti anche dei topolini per rendere completa la realtà di lamiera; magari è lì per regalare un sorriso ai cupi lavoratori che ogni giorno trottano di lì a testa bassa e stress alle stelle. Fateci caso, alla bellezza delle piccole cose, quando le notate; e andate a toccare il muso del micio, che potrebbe portarvi bene.
Appena dietro l’angolo ci sono i meravigliosi fenicotteri di Villa Invernizzi, che ogni tanto si lasciano andare nei loro canti sgraziati e curiosi. Si sentono fin da qui, e letteralmente possono essere ascoltati anche dai muri. Arrivando qui lo si vede già da lontano, come un neo sul viso meraviglioso di questo pazzesco esempio di Liberty. È Palazzo Sola Busca, che tutti però conoscono come Cà de l’oreggia, la casa dell’orecchio appunto, per questo singolare addobbo accanto all’ingresso.
Negli anni dell’Art Nouveau fu scolpito, perfetto (con tanto di muscoli interni e concavità anatomiche), da Adolfo Wildt, il mistico della statuaria che fu maestro di un altro matto come Lucio Fontana, e che oggi riposa nientemeno che al Cimitero Monumentale. E addirittura negli anni ’30 fungeva da citofono, funzionante e limpido come quelli di ultima generazione. Pare che a sussurargli un desiderio, alla fine si avveri. Che fate, non provate?
Gallarate è un comune alle porte di Varese, di cui è provincia, che conta poco più di cinquantamila anime. È uno snodo nevralgico per il traffico verso l’aeroporto di Malpensa, e fino al 1927 era in realtà parte della circoscrizione di Milano. Dal 1880 al 1966, Gallarate fu collegata alla Madonnina tramite una linea ferroviaria specifica, divenuta leggenda perché l’unica in assoluto a non essere mai passato sotto il controllo della ATM, l’azienda di trasporti milanese che oggi gestisce l’intero apparato della mobilità cittadina.
Nel 1915 la linea passò sotto la gestione STIE, Società Trazione e Impianti Elettrici, e vi rimase fino alla sua soppressione. Dal cuore della città si snodava fino ai paesini del Nord Ovest meneghino, dove brulicavano gli operai e le famiglie che trainavano l’economia regionale; le fermate all’interno della cerchia urbana si dipanavano lungo l’intero Corso Sempione, per poi finire al capolinea accanto all’Arena Civica. Non rimane più nulla del glorioso sbuffare di locomotive prima e sferragliare di trainati elettrici poi, se non un solitario reperto: il paraurti (in gergo tecnico respingente) che sbuca anziano e placido all’incrocio tra il Corso e via Moscati. Come a dire che adesso sì, belle le auto e il caos dell’ora di punta: ma un secolo fa a regnare sovrani erano i vagoni storici.
Fermatevi un attimo, che qui non esiste fretta. Se ci riuscite guardate subito in alto senza pensare al resto. Colori, ombre, forme: sembra di guardare un tramonto pigro, con quelle nuvole sfumate e i toni caldi. Adesso, rapidi, giù lo sguardo, intorno a voi: il macabro, il freddo. Che estremo contrasto eppure che strana bellezza. Chissà quante storie avrebbe da raccontare ognuno di quei volti che volti non sono più. Cristiani morti in battaglia contro gli Ariani, milanesi caduti durante l’invasione dei Goti: ci sono tutti e forse non c’è nessuno, perché sono perlopiù leggende. Di certo c’è che facevano parte di un cimitero poi diventato troppo piccolo, per cui vennero riesumati nel XIII secolo e riposti qui, nell’Ossario di San Bernardino. Quattro mura di grottesco che in qualche modo decora ed emoziona, ogni teschio ha un senso, ogni osso un motivo. Ci si perdono le ore seduti sulle panchette in legno a chiedersi chi fossero, tutti loro. Quando in realtà potremmo chiederci chi siamo, noi, ogni giorno. Magari al bancone di un bar.
Note: L’Ossario di San Bernardino è un costola (è il caso di dirlo) della adiacente Basilica di Santo Stefano; all’ingresso di questa si trova la Pietra degli Innocenti, sulla quale furono uccisi quattro martiri. Inoltre a Èvora, in Portogallo, esiste la Capela dos Ossos: fu fatta costruire da Giovanni V, re del Portogallo, a metà del 1700, dopo un suo viaggio a Milano. Era rimasto così folgorato dalla particolarità dell’Ossario, che lo volle anche a casa propria.
Affacciato sul tranquillo Piazzale Bacone, uno stupendo palazzo in stile Liberty permette di godere un attimo di incredibile potenza, scolpito in facciata: due corpi che si avvolgono in un’esplosione di passione, sensualità e sentimento, perfettamente inquadrati nella geometria dell’edificio. Sono lì come a guardare e farsi guardare, a metà tra il timido e lo sfrontato, in mezzo alle finestre e al via vai del quotidiano: intorno a loro, motivi floreali, altri elementi di decorazione in cemento e più in generale una sensazione di magnifica tranquillità.
Il palazzo fu tirato su nel 1908 dall’architetto e progettista Andrea Fermini: pare che l’ispirazione per questi bellissimi corpi gli fosse venuta a contatto con l’opera di Gustavo Dorè, pittore e disegnatore francese che divenne celebre per le sue rappresentazioni della Divina Commedia. Dalle raffigurazioni degli eterni amanti, Paolo e Francesca, Fermini avrebbe tratto l’impulso per questa superbe espressione di dinamismo e sensibilità; che non a caso, sopravvisse integra ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Se a Milano si potessero immaginare dei buchi neri, di quelli da tuffarcisi dentro per arrivare dove non si sarebbe mai immaginato, questo sarebbe serenamente una delle prime scelte. La bellezza di seicento anni fa, in quello che oggi è il galoppante Corso Garibaldi, venne eretta una chiesa, poi dedicata a Maria Incoronata perché i lavori terminarono in concomitanza con l’incoronazione, appunto, di Francesco Sforza a Duca di Milano. Pochi metri accanto, fu invece costruito un alloggio per i frati che risiedevano o pellegrinavano da quelle parti.
Negli anni, questo secondo piccolo edificio è stato adibito a deposito, rifugio, e ovviamente biblioteca: la libraria, come la chiamavano loro, venne già a metà del Quattrocento impreziosita da capitelli intarsiati alle colonne, e soprattutto affreschi di pregevolissima composizione alle pareti. Oggi è vuota, e conservata in eccellenti condizioni, compresi gli affreschi rimasti, grazie al paziente lavoro di salvaguardia operato dalla Parrocchia. Per accedervi è necessari prenotare con una mail (incoronata@chiesadimilano.it): sono concessi pochi minuti, che bastano per potersi sentire circondati da una bolla di cultura e silenzio, come se davvero ci si potesse ritrovare a tu per tu con monaci e sapienti. A noi, almeno, è sembrato di poterli ascoltare.
Di proprietà del Boggia Antonio. Un corsivo sbiadito d’altri tempi, una scatola di legno rettangolare. Grafia elegante e dritta, vergata su un panno bianco; di un certo gusto quasi, se solo non avvolgesse il manico di una mannaia fautrice di delitti indicibili. La lama sbucò non senza scalpore nel 2009, nel giro del mercato dei collezionisti, e oggi è conservata al Museo di Arte Criminologica di Olevano di Lomellina.
Perché quell’Antonio Boggia era il tristemente noto Mostro di Milano, che di quello strumento si serviva per assassinare le sue povere e ignare vittime, a metà Ottocento. Maestro d’oratoria, poliglotta, impeccabile nei modi, affabile nelle conversazioni: come spesso capita, il più insospettabile si rivela il più terribile, e ancora oggi gli sciuri un po’ in là con gli anni ammoniscono, “Fa minga el bogia”, poco di buono. Per dieci anni Boggia, prima di essere arrestato e impiccato, irretì ricche donne che gli intestarono ingenti ricchezze, per poi elminarle e smaltirne i cadaveri in una cantinola di quella che all’epoca era chiamata Stretta Bagnera, ancora oggi la via più striminzita di Milano: chi ci è passato di notte giura di aver sentito una brezza gelida salirgli per la schiena, anche in pieno agosto. C’è un solo modo per scoprire se davvero si tratta di un fantasma.
Prima di tutto, è una chiesa che risale addirittura al 1245; che già di per sé un po’ di brividini vengono, a rileggere la data. Otto secoli di storia fiera, dedicata al patrono di Venezia, che fornì preziosissimo aiuto a Milano per respingere e poi sconfiggere nientemeno che il Barbarossa. Ma anche in questo caso, manco a dirlo, non è nulla di certo. Ci sarebbe poi anche una curiosa stella di David nel pieno centro del rosone, sulla facciata principale (peraltro bellissima): ma come, un simbolo ebraico, massonico, esoterico, sull’ingresso di una chiesa cattolica?*
Ma è all’interno della Chiesa di San Marco, che le domande davvero rimangono senza risposta: nell’abside in fondo a destra rimane a riposare un sarcofago, su cui è scolpito a grandezza naturale il corpo di quello che doveva essere un nobile medioevale (lo si capisce dall’abbigliamento, e in generale dal fatto che una sepoltura del genere non era certo economica). Potete scrutarlo dai piedi in su, e arrivare fino al viso. O almeno, a quello che doveva esserlo: la lapide è infatti in perfette condizioni, eccezion fatta per la testa dell’uomo di pietra, che è stata evidentemente e accuratamente scalpellata via. Ad oggi, non si sa chi sia l’uomo raffigurato (e presumibilmente sepolto), né il motivo di questa punizione postuma. Un altro brividino vi sale su, lo sappiamo.
*tranquilli, fino all’inizio dell’Ottocento, la stella di David era comunemente utilizzata come figura ornamentale anche nelle chiese cattoliche. A partire dal diciannovesimo secolo iniziò a essere associata sempre più spesso all’ebraismo.
Scendendo verso sud, da Porta Romana, si arriva al trafficatissimo Corso Lodi. È un vialone (e una zona) ad alta densità abitativa, stracolmo di vita quotidiana e tran tran. Tempo addietro non era propriamente così: trovandosi al di fuori del centro della vecchia Milano (oggi con la metro si raggiunge il Duomo in otto minuti), tutta l’area era adibita a ricettacolo delle peggiori categorie umane, dai banditi ai contrabbandieri, dai galeotti ai diseredati. Fu quindi utilizzata come fossa comune e luogo di esecuzione dei condannati (i più poveri: i nobili venivano decapitati in Piazza Mercanti, per i personaggi comuni si utilizzava Piazza Vetra, luogo anche di roghi contro le streghe), che penzolavano dagli alberi per giorni, come monito per la popolazione.
Poco dopo la metà del Novecento, il Comune di Milano ordinò una nuova piantumazione del viale, con altrettanto nuovi platani a crescere e dare verde. Che ci crediate o meno, un paio di questi è venuto su torcendosi, fino a far intravedere, nel tronco, un volto sofferente: come fosse quello di uno dei poveretti che decenni addietro venivano giustiziati qui. Forse è immaginazione, magari solo leggenda: tra i civici 75 e 78 potreste trovare la risposta. Se ve la sentite.
Quindi state passeggiando con il Duomo alle spalle, ve ne state andando bellamente a spasso, quando vi vedete sedici occhi giganti puntati addosso. Sono gli otto figliastri di Leone Leoni, scultore, cesellatore, criminale, che a metà del ‘500 li disegnò come ornamento (una cosina, insomma) per l’abitazione sua e di suo figlio. Ciascun Omenone (grosso uomo, in dialetto) reca alle sue spalle un nome in latino: sono le stirpi di popolazioni conquistate dagli antichi Romani, delle quali Leoni immaginò di aver disegnato i condottieri. Tipino focoso, l’artista, inviso a molti dei suoi colleghi: per questo fece apporre sul portone d’ingresso un inquietante bassorilievo, dove due leoni (presumibilmente simbolo della famiglia) sbranano la personificazione della calunnia. Insomma, nel dubbio, quando passate lì davanti comportatevi bene.
Nota: il numero 1722 che si legge in alto non indica certo l’anno di costruzione. È il civico: prima della numerazione attuale, i palazzi erano segnalati da numeri progressivi che partivano dal centro e si diramavano in forma concentrica. Il Palazzo Reale era il numero 1, e si procedeva così fino all’ultima costruzione (numero 5314); la stessa numerazione è oggi ancora in vigore a Venezia.
Quasi trecento anni dopo la costruzione della Casa degli Omenoni, toccò al buon Giovanni Battista Chiappa progettare Palazzo Borgazzi (conosciuto anche come Palazzo Stampa di Soncino Borgazzi), dal nome della famiglia monzese che lo commissionò nel 1828. Oltre al pregevolissimo cortile interno, che è liberamente accessibile se si chiede permesso (ma date comunque un occhio qui per altre idee), il palazzo si nota subito per i quattro telamoni in facciata, per i quali l’architetto si ispirò per l’appunto a quelli di Leone Leoni.
Nota: Telamone deriva dal nome di un eroe mitologico e viene spesso reso sinonimo di Atlante, che secondo la leggende sopportava il peso del mondo sulle sue spalle. Quando le statue sono femminili si parla invece di Cariatidi, come quelle di Casa Campanini.
Martirio, Sisinnio e Alessandro furono tre missionari inviati da Sant’Ambrogio in Anaunia (oggi in Trentino, nella Val di Non) per evangelizzarne gli abitanti, nel IV secolo. Non finì granché: i tre vennero torturati e uccisi nel 397, dichiarati quindi martiri, e i loro corpi furono restituiti a San Simpliciano, nel frattempo succeduto ad Ambrogio come vescovo di Milano. Fu lui a riporre le spoglie dei martiri in una cripta sotto la Chiesa che porta il suo stesso nome (all’epoca conosciuta come basilica virginum).
Secondo la leggenda, quando la Lega Lombarda sconfisse Federico Barbarossa nel 1176, tre colombe bianche svolazzarono fuori dalla chiesa, andando a posarsi sul veicolo militare dei vincitori (il celebre Carroccio): a chi vuol credere, la facoltà di credere. Nel 1927, la cripta in San Simpliciano fu svuotata e i corpi dei martiri furono riportati a Trento: oggi è liberamente visitabile, chiedendo il permesso, e passando accanto allo strepitoso altare decorato da Aurelio Luini.
Deve essere privo di ogni vizio, chi si appresta a criticare un altro. È inciso come monito, quasi un invito a guardarsi dentro e ricordarsi che nessuno è perfetto, proprio accanto ai resti d’arte all’interno di una catena di moda. Ed è sotto i piedi di una statua romana, datata intorno al terzo secolo, che oggi si trova nell’arteria per eccellenza della città. Sembra star lì a guardare tutti senza prestare troppa attenzione, eppure nel corso degli anni ha rivestito un ruolo di sfogo fondamentale e di enorme valore comunicativo.
Sciùr Carèra, chiamato così per il verbo carere che è la prima parola del motto latino iscritto sulla sua colonna, è stato per secoli il megafono della popolazione milanese. Come per altre statue parlanti d’Italia, i cittadini erano soliti appendere alle sue caviglie i loro pensieri, generalmente di scherno quando non addirittura di critica, circa l’operato dei governanti. E per quanto popolana e leggera possa sembrare come usanza, fu in realtà uno specchio importante del malcontento degli abitanti, che i regnanti arrivavano a percepire anche attraverso questi scritti lasciati di notte. Magari quando camminerete per il Corso dopo un pomeriggio di shopping, passerete a salutarlo; fa sempre bene ricordarsi che tutti, nessuno escluso, siamo i primi a dover fare i conti con noi stessi.
Beati è la descrizione che meglio si addice all’espressione scolpita di questi due bei corpi. Sono due Fauni, muscolosi e sognanti, che reggono l’ingresso di un palazzo moderno, con al loro fianco presumibilmente Adamo ed Eva (non si conosce nessun altro che abbia mai indossato foglie di fico). Stanno là senza motivo noto, se non quello di essere piacevoli alla vista: di certo meno seriosi dei fieri Bersaglieri di Corso di Porta Romana 20.
Sarà di certo più ridotta nelle dimensioni, rispetto alle altre metropoli europee cui viene spesso paragonata, eppure Milano non manca davvero di nulla. Per ogni momento della giornata, sia essa stressante o serena, piena o pigra, attesa o maledetta, ci sarà un luogo della città adatto a essere visitato.
Alcuni di questi vanno bene sempre. Tra palazzi storici e angoli di bellezza nascosta, si scorgono infatti dei giardini che sembrano bolle di tranquillità dove potersi rifugiare se tutt’intorno è troppo veloce, ritagliare uno spazio se invece si ricerca solo silenzio. E molti di questi scorci di quiete portano con sé storie inaspettate.
Per gioco, per amore o per interesse personale, ciascuno di noi ha probabilmente provato, almeno una volta nella vita, a coltivare una collezione. La sensazione di portare avanti e custodire una raccolta, che sia monotematica o varia, alimentandola per consegnarla forse ai posteri. E magari sarà durata molto meno di quanto ci saremmo aspettati o avremmo desiderato.
Milano racchiude invece una serie di musei, fondazioni, collezioni private di totale unicità: dalle raccolte di famiglie nobili, agli studi di designer e architetti che hanno tramandato le loro idee e i loro progetti, fino alle pietre miliari della cultura della città o a veri e propri luoghi di riflessione e contemplazione, artistica o introspettiva. Che si tratti di quadri, oggetti o anche solo memorabilia, l’intera città è disseminata di occasioni per conoscere più a fondo animi preziosi. Basta solo trovare la porta giusta.
Passeggiare per le strade di Milano può rivelarsi una straordinaria caccia al tesoro. Fondata dai Romani, del cui Impero d’Occidente fu capitale, divenne poi centro culturale ed economico di un certo rilievo nel periodo Rinascimentale. Con il passare dei secoli, le nuove costruzioni si sono sovrapposte alle antiche, come spesso succede nelle città ricche di storia, senza però per fortuna cancellarle del tutto.
Gli ariosi vialoni, o le strette stradine: ogni arteria di Milano potrebbe riservarvi sorprese di incredibile bellezza, se solo saprete dove andare a cercare. I portoni più anonimi potrebbero essere scrigni di ricchezza impensabili, e chiedere il permesso a un custode potrebbe essere un lasciapassare per un viaggio nel passato. A ridosso di chiese e monasteri, all’interno di abitazioni nobiliari, o semplicemente al centro di condomini privati: i cortili e i chiostri di Milano raccontano di vite trascorse, che ancora oggi fanno sognare.
Lo sfarzo di sale affrescate, l’emozione di cortili e portici ad archi, le storie intrise di leggenda che hanno visto famiglie potenti intrecciarsi con sovrani e popolani. Milano fu centro di estrema importanza nel commercio e nella società fin dal MedioEvo, e regnanti e ricchi non persero tempo a costruirsi palazzi che ne dimostrassero l’importanza.
Scoprite allora un itinerario che vi porterà in giro per gli edifici storici, che in passato furono abitati da stirpi di valorosi, spesso poi caduti in rovina; altri ancora sono ancora di proprietà degli eredi, che con più cognomi e più interessi oggi dedicano i propri spazi privati alla valorizzazione della bellezza e del lavoro degli artisti moderni.
Perdetevi nelle immense sale da ballo, arrampicatevi sugli scaloni d’onore, percorrete i corridoi tappezzati per rivivere le atmosfere di tempi che furono, quando la brama di potere e il desiderio di cultura si fondevano in una sola, affascinante e pericolosa energia. E magari potrete chiedervi come sarebbe stato, se a vivere in quei giorni foste stati voi.
Lacrime, apparizioni, guarigioni: l’appiglio per chi crede e non ha null’altro, il dubbio per chi vuole capire di più, quando da capire c’è forse nulla. Miracoli a Milano si sono visti sin dai tempi della sua fondazione, e nel corso dei secoli le storie si sono moltiplicate.
I protagonisti sono stati dei più disparati: operai zoppi, poveri buoi, parroci con il mal di gola. A volte è un atto di speranza, altre la speranza di un atto. E anche per chi proprio non concepisce la possibilità di avvenimenti superiori, magari è una buona idea far visita in questi luoghi. Non si sa mai che si possa cambiare opinione.
L’Uomo Universale, il genio che dipinse, scolpì, costruì, progettò, sconvolse e vide oltre. Leonardo da Vinci a Milano sostò eccome (1482-1499), in una finestra di vita che gli bastò per realizzare giusto una manciata di opere destinate a segnare la cultura dell’umanità. Ci era arrivato in realtà come messo, inviato da Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, per omaggiare Ludovico il Moro con il suono di una lira progettata da Leonardo stesso (perché sì, era anche un più che discreto musicista). Rimase in quella che allora era una delle più popolose città d’Europa per dodici anni: l’assurdo capolavoro del Cenacolo rimane senza dubbio la traccia più celebre del suo passaggio qui, ma da Vinci ha disseminato per Milano svariati tasselli che contribuiscono a comporre il rompicapo della sua vita.