Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

L’apertura del Dirty ha smosso non pochi commenti, per tutta una serie di fattori. Prima di tutto per i suoi protagonisti: Mario Farulla, Gianluca Tuzzi e Carola Abrate sono tre nomi notissimi del giro miscelato, ciascuno con esperienze di alto profilo alle spalle (le ultime forse meno brillanti di quanto ci si aspettasse, ma chi di noi ha un curriculum immacolato?), e l’aver deciso di mettersi in gioco direttamente, con un bar come estensione della propria persona e non solo come figure di immagine, è già di per sé una notizia. Peraltro, e lo cito direttamente, nell’ultima avventura di Farulla in proprio, quindici anni fa, “la gente si prendeva a picconate fuori dal locale”, quindi comunque così male non potrà andare stavolta.

Ci si sono messe poi le teste di ciascuno, fuse (a tratti anche in senso caratteriale) in un concetto che da tutte le parti ha fatto scalpore, ma ho onestamente faticato a capirne il perché. O meglio, ho compreso alcuni dettagli che possono essere inusuali: il bagno con la luce che si accende solo se urli, la Simmenthal in menu, il chilo di olive nel Super Martini (signora, lascio?). Anche la totale assenza di brand e le bottiglie a marchio, non sono cose che si vedono troppo spesso, ma da qui a gridare a chissà quale scandalo il salto è piuttosto lungo. Strutturalmente peraltro è un luogo splendido, di grande impatto per aspetto e atmosfera, con le pareti graffiate e un po’ oniriche e i tubi nudi che pendono dal soffitto. Sì, ci sono peni e vagine bucherellati sul bancone: considerando il contesto e l’impostazione artistica del locale, hanno parecchio senso (mille volte di più di quel Mr Dick che continua ad avere una fila chilometrica a ridosso dei Navigli, poi venite a parlare di scandalo).

Mi sorprende invece la valanga di perplessità che ho respirato sui social e tra gli addetti ai lavori, che non hanno perso tempo ad additare Dirty e i suoi ideatori come scioccamente controcorrente, eccessivi, addirittura deleteri per il movimento. Dirty mi è invece sembrato un luogo di una semplicità quasi essenziale: un bar d’alto volume alla vecchia maniera, scontrino alla mano e fila al banco, playlist paurosa con i mammasantissima della R&B, luci poche (occhiolino a quelle da sala operatoria proprio sopra la postazione dei bartender, “non salviamo vite”), energia a vagonate. Potrà essere irreverente nella modo di porsi, basta scrollare la pagina Instagram del locale per averne un assaggio, oppure leggere gli ingredienti della carta cocktail (“astio sociale” come componente di un drink è una delle cose più sottili lette negli ultimi tempi); ma alla fine propone un servizio senza fronzoli, che non dice praticamente mai di no. Usano la soda gun e i bicchieroni per il Gin&Tonic; e allora? Dice di essere lontano da certa ospitalità impostata, di quella che ormai sbuca in ogni dove soprattutto a Milano; e lo è, ma non necessariamente in modo plateale, volgare o eccessivo come buona parte della stampa specializzata (ma quale?) ha detto, facendo copia e incolla da un comunicato.

Parte della stessa industria del bar ha invece immediatamente etichettato Dirty come luogo di perdizione ed eccesso per gli stessi bartender, dati gli orari tardissimi che naturalmente lo renderanno una calamita per chiunque finirà il proprio turno e non avrà dove andare, in una città che cosmopolita quanto volete, ma è oggettivamente deserta poco dopo la mezzanotte. E non capisco dove sia il problema (considerando che non solo i bartender ogni tanto sono contenti di poter mangiare un hot dog senza pretese, all’alba): dei nottambuli hanno aperto un luogo per nottambuli, che in ogni caso è di qualità ben superiore alla media, perché se volete un Martini o un qualsiasi classico, a qualsiasi ora, potrete averlo, e pure eccellente.

Tornando ai pizzosi cinquantenni: il grosso problema del bar in questo momento non è certo un nuovo locale che fa un po’ di chiasso in più. È la comunicazione dell’intero settore a fare acqua. Le realtà e gli individui che si proclamano come esperti, non si fanno neanche lo scrupolo di andare a toccare con mano quello di cui parlano, ma si limitano a riferire un sentito dire. E quelli che invece provano e raccontano, vengono bombardati di epiteti se la pensano diversamente dalla massa. Il risultato è tutto nella risposta dell’utente medio: siamo uno dei pochissimi paesi europei in cui ancora l’idea del cocktail bar è legata all’ubriacatura senza mezzi termini, non c’è un briciolo di consapevolezza su cosa un locale incentrato sul bere possa effettivamente offrire (non deve piacere, ma si deve almeno conoscere). E alla fine si finisce per avere generazioni (non giovani, perlopiù), che danno per scontato di poter chiedere una pizza ovunque, e quando non la trovano non si spingono oltre per provare qualcosa di nuovo.

Se chi si suppone lavori nella comunicazione del bar, si impegnasse di più a divulgarlo come si deve, con opinione giustificata e competenza, invece di soli selfie, ne gioverebbe il sistema tutto, perché anche i bevitori non addetti ai lavori avrebbero qualcosa in più da imparare, sperimentare e apprezzare. E di conseguenza, i bartender che si fanno un sedere così, a prescindere dalla filosofia del loro locale, potrebbero godere ancora di più della loro passione. Infine, una buona idea sarebbe quella di dare a Carola, Mario e Gianluca, così come a chiunque decide di fare questo meraviglioso e maledetto lavoro, un po’ di tempo: mi sembra sempre più spesso si sia persa la visione della realtà, si commentino i risultati o il progresso di un’attività dopo poche settimane d’apertura. Servirebbero anni per poter davvero avere il polso di un’insegna, capire come ha incrociato i gusti di quel quartiere, di quel momento storico, della sua platea; invece si continua a raccontare di imprenditori con la bacchetta magica, bartender che da un giorno all’altro scoprono la pietra filosofale e pretendono di intascare quattro cifre a sera per delle guest nights che interessano solo a qualche collega (e dove nella grande maggioranza dei casi si beve malissimo).

Fare bar è prima di tutto accogliere: significa cercare con ogni propria possibilità di esaudire richieste richieste altrui, finché sono lecite e ed educate. Lo si può fare alla propria maniera, come in questo caso, purché a loro volta gli osti siano coscienti dei limiti che la propria offerta può avere: non si può pretendere di piacere a tutti, perché anche il più perfetto dei concetti avrà dei denigratori (che parleranno a vanvera). Né si può pensare d’essere migliori degli altri sempre. A ciascuno la propria visione di ospitalità, purché sana e soprattutto ben comunicata; Dirty può non piacere, chi ci vorrà lavorare o andare a bere non sarà costretto, potrà scegliere. Ma a proposito di dirty: chi si sporca le mani ha (quasi) sempre ragione.

Carlo

 

tutte le foto nell’articolo sono da accreditare a @studiomaigiu

Leggi anche...

baround

Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

baround

Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

baround

Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

baround

Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

baround

Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

baround

Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.