Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

Come già detto nel recente passato, questa prima classifica attira anche gli scalatori di carri di vincitori, che naturalmente finiscono con il far danno al nostro settore, invece di aiutarlo (ma questa è storia già affrontata). La seconda classifica invece, pubblicata la scorsa settimana, è quella che dovrebbe smuovere molto di più l’opinione pubblica, e invece lo fa ancora meno: è la Bar 100, la raccolta delle cento personalità più influenti del mondo bar.

La spaventosa bellezza di questa graduatoria (e senza dubbio anche il suo aspetto forse meno chiaro) concerne il significato stesso del termine: cosa vuol dire essere “influenti”, nel settore dell’ospitalità liquida? Come si valuta il peso che un individuo esercita tra i suoi colleghi, addirittura su un’intera industria? Le risposte, tutto sommato, non ci sono, e se ci sono rimangono comunque sul vago (qui per sapere di più sui criteri della selezione), almeno ai profani del settore. Perché per chi ci è addentro, invece, i segnali sono lampanti, ed è un bene enorme che in qualche modo vengano valorizzati.

Per il quarto anno consecutivo, tanto per dirne una, al primo posto della graduatoria è stata eletta Monica Berg. E le ragioni dietro questo trono vanno ben oltre il bar di cui è co-proprietaria con il compagno Alex Kratena, che pure varrebbe da solo il prezzo di un volo per Londra, data la strepitosa esperienza che permette: Monica è fisicamente e letteralmente in prima linea per il proprio lavoro e per la propria comunità, si tratti di protestare contro le stringenti misure governative inglesi, favorire i percorsi educazionali dei bartender più giovani, lottare per la presenza e le pari opportunità delle donne e delle minoranze nel settore. Quando ha deciso di legarsi a un brand, come ha fatto con Campari Academy, della quale è Direttrice Creativa, lo ha fatto con il preciso scopo di contribuire alla formazioni dei bartender del domani, come mai è stata data loro la possibilità

Essere influenti non significa spostare il mercato. Non solo almeno, perché è ovvio che certe personalità garantiscono maggior attrattiva commerciale alle realtà che girano loro intorno (e ci mancherebbe altro, siamo comunque un settore professionale e commerciale, che diamine). Il vero filo conduttore della classifica parla una lingua molto più profonda: ogni singolo nome presente nella Bar 100 appartiene a una personalità che oltre a miscelare da padreterno, gestire locali perfetti sotto ogni aspetto, raccontare il mondo bar con qualità (sono inclusi anche scrittori e giornalisti di settore), si batte quotidianamente perché la comunità cresca. Sono cento professionisti e professioniste trasversali, non solo bartender, che si fanno un sedere così per fare sì che chiunque dovesse venire dopo di loro (o si trovasse a lavorare al loro fianco) possa trovare il mondo del bar migliore di quanto loro stessi lo abbiano approcciato per la prima volta.

E ho letto con estremo orgoglio i nomi degli italiani citati, ciascuno dei quali, a modo proprio, contribuisce splendidamente a portare alti i colori del nostro paese nel mondo miscelato, dimostrando di essere più che degni di fare parte di questa ristrettissima cerchia di alfieri. C’è il genio di Simone Caporale (in foto sotto, fonte Instagram), che continua a fondere classico e futuro con le sue iniziative a Barcellona (e non solo); c’è la visione futuristica e sostenibile di Giacomo Giannotti, a capo del bar numero 1 al mondo; la classe naturale e disponibile di Ago Perrone, uno degli old greats che continua a fare da mentore alle nuove generazioni, dalla vetta del Connaught Bar; l’italiano d’Australia, Stefano Catino, la mente dietro il Maybe Group che continua a collezionare riconoscimenti e miglia aeree, dati i viaggi che si sobbarca ogni anno per portare in giro il suo verbo; c’è l’istrionico e controverso  talento di Patrick Pistolesi (in foto sotto, foto presa da Instagram), che è nell’ambiente da vent’anni e con infaticabile piglio è al top dell’industria italiana, e non solo; l’intramontabilità d’autore di Alessandro Palazzi, autentica icona dell’ospitalità nostrana, anche lui a Londra; la passione e la competenza di Alex Frezza (in foto sotto, fonte Instagram), che da Napoli sta raggiungendo ogni latitudine, vestendo la sua giacca bianca.

Su ciascuna di queste persone, che ho avuto il privilegio di conoscere personalmente (e con un paio di queste stringere anche ottimi rapporti di stima, ovviamente solo da parte mia), potrei raccontare una sequela di aneddoti che ne descrivono la dedizione e la disponibilità con cui si spendono per il proprio settore. Non sono i Martini superbi o il fatturato dei bar in cui lavorano, che li porta a essere parte di questo gruppo eccellente: è Simone che mi risponde da Singapore perché avrei bisogno degli ultimi dettagli per chiudere un pezzo, mentre lui è mangiato dal jet-lag e vorrebbe solo spegnere il telefono, e il giorno dopo è in pedana a presentare il progetto Boadas o ancora meglio, in sala a raccogliere i bicchieri; è Ago che mi racconta, da quasi sconosciuto, dei dettagli sottilissimi e impeccabili del suo lavoro, mentre sediamo nell’afa di New Orleans, e due mesi dopo è sul palco a ricordare l’importanza dei maestri e degli allievi; è Alex che prende quattro voli in due giorni per tenere lezioni (e poi miscelare alla sera) sulle peculiarità di Napoli e della sua non-tradizione nei cocktail.

Sono gli sforzi profusi per rendere quest’industria balorda un pizzico più confortevole e praticabile, per le nuove generazioni; è la condivisione della propria conoscenza, senza necessariamente un prezzo o un corrispettivo, a favore di chi un giorno potrà fare quello che loro stessi adorano fare, e lo fanno praticamente da una vita (nessuno degli italiani è under 35, e il resto della classifica è più o meno in linea). È la presenza costante di fronte ai pregiudizi e alle difficoltà che il nostro settore incontra da sempre, e che finalmente, grazie anche e soprattutto a questi osti illuminati (che perfetti non sono, come nessuno) sta finalmente mettendo il naso fuori dall’acqua. Quindi, con il dovuto rispetto. Quando da bartender, siate voi proprietari, manager o barback, vi verrà in mente di riferirvi a un influencer per aiutarvi con la vostra attività: ecco, riflettete bene su cosa davvero vuol dire, quella parola.

Carlo

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

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Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.