Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

È significato, quindi, vedere qualsiasi canale di comunicazione intasato di bartender che postavano le proprie foto, memorie, i propri omaggi e perché no ringraziamenti a questa forma d’arte liquida, che per molti, per fortuna, è divenuta una missione. La giusta miscela di ricette indecorose e grandi classici, aneddoti da bar (è il caso di dire) e celebrazioni di sé: insomma, in un modo o nell’altro, noi membri di questa balorda cerchia abbiamo avuto di che brindare. Perché se è vero che il drink in sé non è mai il fine ultimo di un buon bar, è altrettanto indiscutibile che la vita è troppo breve per bere male, ed è attorno a queste composizioni che gira la nostra passione.

Un po’ meno brindisi verrebbero spontanei, però, a constatare il modo in cui la dimensione della miscelazione viene ancora trattata in Italia al di fuori della cerchia (purtroppo ancora ristretta) del settore. Di certo non ci si può aspettare che i cocktail e i bar siano argomento di quotidiana discussione come accade per i ristoranti e il cibo in generale (anche se comunque, potenzialmente, il margine c’è), ma quelle poche volte in cui i riflettori sono puntati sul bancone, chi racconta dovrebbe avere almeno il buon gusto di farlo con cognizione. E lo scorso weekend non è stato il caso.

Una testata non certo secondaria come La Repubblica, per raccontare (brevissimamente) il World Cocktail Day si è addirittura lanciata in un videino che ha raccolto gli undici cocktail più bevuti al mondo, riprendendo l’annuale classifica di Drinks International che per il secondo anno consecutivo ha visto il Negroni in vetta. Ed è stata una collezione di dettagli da censurare: a partire dal riferimento alla graduatoria di Drinks International, che raccoglie sì i drink più ordinati, ma nei bar della World’s 50 Best, che è una cosa un po’ diversa; fino a scambiare whiskey con whisky, omettere informazioni fondamentali sui cocktail in lista, denominare Folco e non Fosco il povero Scarselli artefice del Negroni, sbagliare la data di creazione del Penicillin e trionfare con la nota sul Manhattan, che a detta loro parlerebbe “italiano con vermouth e bitter”, evidentemente intendendo il secondo come Campari e non come quello di Angostura, che è nella ricetta, ma è un attimo un attimo originario di Trindad e Tobago. E poi ancora, foto di qualità scarsissima, video che riprendono ghiaccio da frigorifero di casa, cannucce di plastica, e altre cose che vi risparmio.

A La Repubblica va dato quello che è de La Repubblica: il merito di essere stato forse l’unico giornale non di settore a parlare del World Cocktail Day. Ed è senz’altro vero che quelle appena elencate sono minuzie che a noi fanno girare le scatole, ma al consumatore generale fregano meno di zero: ma purtroppo il punto è proprio questo. Perché la miscelazione e il mondo bar possano finalmente arrivare a essere considerati alla stregua di universi simili (il cibo su tutti), è necessario che anche la più infinitesima inezia sia raccontata nel modo giusto; l’approssimazione, e vale in una ricetta come in tutto quello che concerne l’ospitalità, comunicazione inclusa, è nemica del successo. Se il lettore (e bevitore) medio, sulla seconda testata più letta d’Italia (primo è il Corriere della Sera, secondo datamediahub.it) si imbatte ancora in informazioni scorrette o incomplete, e su un’immagine che collega il mondo del cocktail a sciatteria e scarsa eleganza, la strada appare ancora durissima.

La comunicazione generalista, sia essa stampata o digitale, fa una fatica enorme a documentarsi e documentare come si deve il settore della miscelazione. I motivi sono i più disparati, e tra i più evidenti andrebbero ricordati la storica avversione italiana per prodotti alcolici che non siano vino, la sempre peggiore cultura generale di chi per mestiere si suppone dovrebbe divulgare (e invece ha lacune anche solo a parlare italiano, figurarsi fare ricerche e costruire una narrativa), e la tendenza a spettacolarizzare quello che va di moda, invece di raccontarlo per quello che è: in soldoni, secondo la visione media, è più utile postare la foto di un Aperol Spritz al tramonto, invece di ricordarne (nelle sedi opportune, chiaramente) la profonda matrice storico-culturale che ha dato origine al drink.

Sia chiaro, non vorrei mai vedere, o peggio ancora sentire, infiniti pipponi su come questo cocktail è nato, come quel distillato viene realizzato e tutta la valanga di chiacchiere che i bartender sono sempre piuttosto contenti di scambiare con i malcapitati di turni. Quello che mi preme sottolineare, è come il nostro mondo sia ancora considerato come piatto, senza cultura e senza radici, perdendo l’occasione di liberare invece tutto l’infinito potenziale che racchiude.

A fronte di una evidente responsabilità di chi comunica, e questo non andrebbe mai dimenticato, deve quindi esserci lo sforzo totale di chi al bancone ci lavora ogni sera: raccontare, divulgare, trasmettere. Con passione e cura dei dettagli, da amanti di quello che si fa, non da professori. Che almeno al bar ci si possa emozionare ascoltando una storia, o appassionarsi facendosi spiegare un particolare: l’obiettivo è senza dubbio vendere (anche perché altrimenti staremmo tutti in mezzo a una via, e allora sticavoli di raccontare), ma si dovrebbe sempre mirare a contribuire al sistema. Un oste che accende una scintilla nell’animo di un ospite, fa un favore a tutto il movimento dell’ospitalità, perché alimenta la voglia di chi un domani trasmetterà a sua volta, in modo salutare e soprattutto corretto, cosa il mondo del bar nasconda, che si tratti di storia, usi, gusti, ricette.

Anche perché di leggere che il Whiskey Sour è fatto con lo Scotch, vedere foto di garnish con i chiodi di garofano, e venire a sapere che il Margarita ha “un giro di sale attorno al bicchiere”, ecco, si può anche fare a meno.

Carlo

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baround

Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

baround

Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

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Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.