Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

Chi vomita disprezzo e indignazione (termine abusato come pochi, letteralmente significa ribellione a ciò che offende la dignità. Presuppone che una dignità ce la si abbia) per i due euro toast-icidi, fa parte della stessa categoria di chi prenota per tre e poi si presenta con una comitiva da otto, perché tanto “uniamo due tavoli e ci siamo”; o al contrario, blocca intere sale per gruppi da dodici, salvo poi arrivare in meno della metà, “va bene lo stesso?”. No che non va bene. Chi non avvisa di avere un bambino tra i coperti prenotati, magari piombando un venerdì sera con un passeggino da dover sistemare chissà come; quando non addirittura con un cane di taglia medio/grande, che magari si stenderà sullo stesso pavimento che saranno i bartender, gestori, professionisti di sala a dover pulire (e che avevano già pulito prima del servizio). Chi non segnala da subito eventuali intolleranze o allergie, senza quindi dare modo a cuochi o bartender di preparare un’offerta specifica per tempo. L’utenza italiana ha insita la concezione per cui un locale è una sorta di zona franca, dove tutto è permesso perché “se pago, posso, anzi mi è dovuto”.

Addirittura, ci si potrebbe permettere anche di non pagare. Nel mezzo del delirio cui sto assistendo, ho letto una valanga di commenti al posto Facebook di una profonda conoscitrice (e sostenitrice) del mondo bar, che si schierava dal lato della comunità ospitale. Tra i miei preferiti c’era chi sosteneva l’assoluta genuinità del sedersi al bar o al ristorante e non consumare niente, occupando un posto solo per tenere compagnia a chi invece è lì per mangiare o bere (è un locale, sai com’è, ci si va per quello). “Ma allora che facciamo, chi vuole mangiare si siede, tutti gli altri aspettano fuori?”: più o meno sì. Usufruire dell’ospitalità richiede sensibilità e cultura anche nel comprendere le basi di quello in cui la ristorazione consiste. Per cui se solo una parte della comitiva vuole mangiare o bere, si può andare in locali che permettono che ne so, una consumazione in piedi o all’aperto, un ambiente meno impostato sulle sedute, un take-away, un cinema. Oppure anche stare a casa, di chi vuole mangiare e vuole bere.

Io non vado dal medico per non farmi visitare, non porto l’auto in officina per non farmi controllare le prestazioni, né chiedo aiuto a un idraulico perché non mi dica cosa hanno i miei tubi che non vanno. Oppure, sarei pronto a giocarmi un mignolo, se anche volessi farlo, sono certo mi ritroverei a dover pagare per il tempo che ho sottratto a questi professionisti, che avrebbero potuto impiegare per guadagnarsi da vivere in altro modo e con clienti meno imbecilli. Per quale motivo dovrei sedere al bar o al ristorante, impedire al locale di far sedere qualcun altro al posto mio (che consumerebbe e pagherebbe), senza in alcun modo retribuire questa possibilità, pur non ordinando nulla? Il coperto, che è un altro argomento demoniaco per l’utente miope, ha esattamente queste radici: i viandanti si fermavano nelle locande senza consumare nulla, ma solo per potersi riposare con un tetto sopra la testa (al coperto, appunto). E per questo pagavano, perché qualcuno lo permetteva loro.

Qualcuno offriva loro un servizio, come è un servizio, seppur minimo, quello del taglio del toast, che implica anche il dover lavare un piatto in più, che a sua volta richiede più energia da consumare (che il ristoratore paga). Tutta questa sequela di risorse economiche necessarie a un’attività per andare avanti è assolutamente ignota alla massa: chi consuma non ha la minima idea di cosa ci sia dietro la gestione di un locale, e a questo aggiunge una sempre più assurda dose di ignoranza e presunzione, legittimata dalla facilità con cui può dire la propria online. In soldoni: consumo, non ho contezza di quello che succede e perché, ne parlo male se non mi piace, perché ne ho la possibilità.

E già così è uno scenario da prurito. A questo si aggiunge il lato oscuro dell’ospitalità, quello ammorbato da un retaggio che vede i ristoratori come disposti a tutto per un dollaro in più, e che troppo spesso mascherano la loro spregiudicatezza dietro le problematiche reali, peraltro andando a pesare, alla fine della fiera, sulle spalle di chi è onesto. La materia prima aumenta di costo? I prezzi aumentano in modo sproporzionato, tanto nessuno dei consumatori (quegli stessi che si indignano per il toast vanno poi serenamente a spendere cento volte di più, se questo vale un post su Instagram) andrà a controllare quanto quell’aumento sia giustificato. Le materie prime sono più care? Le voci del menu che aumenteranno per prime saranno quelle su cui il margine di guadagno è maggiore. E a questo si somma lo strascico di questioni ataviche e irrisolte, come il vergognoso trattamento dei dipendenti, la disonestà dichiarativa, la concorrenza sleale.

Non dico che ‘sti straca*zo di due euro siano sacrosanti. Penso solo sia necessario guardare la realtà delle cose: un oste potrà mettere qualsiasi servizio aggiunto a qualsiasi prezzo, fossero anche cento euro per una stretta di mano. La cosa davvero fondamentale sarà per questo oste segnalare l’aggiunta e motivarla, per dare la possibilità al consumatore di prenderne atto, e decidere se pagare (quindi consumare e rimanere) o rifiutarsi (quindi non consumare e andare via). Perché il consumatore non ha ricevuto ordine scritto da nessuno, di rimanere in quel posto: se è d’accordo con l’offerta, bene, altrimenti esistono altri milioni di indirizzi. Fioccano, purtroppo, le foto di scontrini ritenuti esorbitanti (ve la ricordate la pizza di Cracco, o la pasta in bianco al Portrait di Milano?): sono prezzi esposti e visibili, scritti apposta per essere consultati. Se è troppo o è ritenuto immorale, si può procedere oltre, che senso ha consumare, pagare, magari senza neanche lamentarsi di nulla, e poi da dietro uno schermo stare a fare i paladini della buoncostume? È da qui che si potrebbe fare un passo verso una miglioria: trasparenza dei ristoratori che si traduce in informazione, così che chi è ospite possa finalmente comprendere quello che si cela (davvero, senza approfittarne) dietro il lavoro di un locale, e decidere se sostenerlo o meno.

Chiudo con il vero squallore che questa storia ha confermato, per la millesima volta: la recensione TripAdvisor da cui questa bagarre si è scatenata ha come data un giorno di giugno. Significa che qualcuno, dopo due mesi, si è imbattuto in queste poche righe (voglio sperare non esista chi va specificamente alla ricerca di questo materiale) e ha poi deciso di trasformarle in una notizia, come dicono quelli bravi, buttandola in pasto alla popolazione senza un minimo di analisi o contesto. Il giornalettismo è il male più meschino che l’ospitalità abbia sofferto negli ultimi anni, con la sua ricerca del click, le liste dei migliori locali spacciate per articoli veri e propri (e i locali che si autoincensano “bellissimo articolo di X che parla di noi”, ma cosa?), presunti pennaioli portati in palmo di mano che manco sanno di cosa è fatto uno sherry o una mantecatura. Vergognatevi, soprattutto perché io adoro i toast e adesso se ne chiedo uno mi viene l’ansia.

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baround

Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

baround

Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

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Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.