Tra il 18 e il 22 marzo 1848 il popolo milanese si lanciò in cinque giorni di ardore, successivamente noti come le cinque giornate di Milano. Furono messe in fuga, seppur temporaneamente, le truppe austriache che dominavano la città, dando un segnale decisivo circa il carattere e la determinazione dei cittadini.
Si susseguirono anni di tensione e moti, rincorse di piani futuri mescolate con le divergenze di una politica che ancora poteva chiamarsi tale. Malcontento e sogni, reazioni e progetti andavano intrecciandosi. Nelle crepe di un’Italia logora dalla Grande Guerra, si insinuò viscido il fascismo, preludio della devastazione della Seconda Guerra Mondiale.
Milano fu la città più pesantemente bombardata del nord Italia, e tra le più coinvolte nell’orrore delle deportazioni. La metà degli edifici fu colpita da una pioggia d’odio e bombe: quasi 200.000 sfollati, più di duemila morti. Restano testimonianze visibili e visitabili, perché dimenticare sarebbe un ulteriore gravissimo crimine.
Le Cinque Giornate di Milano sono state uno degli spartiacque fondamentali nella storia di quella che pochi anni dopo sarebbe divenuta la nazione Italia. Covando il furore del Risorgimento, i milanesi costruirono barricate e assediarono l’invasore austriaco: il Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall’Impero Austriaco, era infatti stabile già dal 1815, dopo la caduta definitiva di Napoleone, che aveva istituito in precedenza il Regno d’Italia sotto la sua influenza.
Spinta dalle teorie e dal comando di intellettuali come Carlo Cattaneo e Cesare Correnti, Milano respinse il nutrito esercito con a capo l’ormai anziano Josep Radetzky, che si era asserragliato nel Castello Sforzesco e minacciava di fare letteralmente detonare la città. Furono cinque giorni di aperta battaglia, culminati con la presa di Porta Tosa (poi denominata Porta Vittoria, per ovvi motivi) da parte dei milanesi, grazie all’azione incendiaria di un calzolaio, Pasquale Sottocorno.
In Corso Venezia 13 e all’angolo con Via della Spiga sono ancora evidenti le porzioni di muratura spaccate dalle cannonate delle Cinque Giornate: invece di stuccarle, sono state evidenziate con delle targhe che ne segnano la data (marzo 1848).
Allo stesso modo, inesplosa e oggi innocua, una palla di cannone è rimasta incastrata nella facciata di un maestoso palazzo in Corso di Porta Romana, segnalata anch’essa con una data incisa. È il civico di Palazzo Acerbi, che custodisce anche una inquietante e appassionante leggenda.
Su quello che un tempo fu il terreno dove sorgeva il Lazzaretto, nel 1908 fu costruita una chiesa dedicata a San Gregorio, che dà anche il nome alla strada. Pur maestosa e ampia all’interno, con le volte robuste e serafiche, custodisce un solenne tributo a chi è mancato in battaglia.
Sul fondo del lato sinistro è infatti presente l’accesso a una cripta, che custodisce numerose tra pergamene, statue e soprattutto lapidi. In quella che è definita come Cappella della Resurrezione, si trovano incisi i milleseicento nomi dei caduti in battaglia durante la Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale del 1915-18. Basta un saluto, un ricordo e poi andare via.
Mentre intorno a voi è un pullulare di gioventù alle prese con le grane della vicina Università, di fronte avete un monumento imponente e silenzioso, strutturalmente speculare all’adiacente Basilica di Sant’Ambrogio. In tempi antichi, qui era il cimitero dei martiri: oggi si vedono il colonnato e il frontone inscritto a proteggere un mausoleo, una fiaccola con fiamma perpetua e il ricordo di migliaia di anime immolate per la libertà.
Il 4 novembre 1918, l’Impero Austro-Ungarico si arrendeva all’Italia, firmando l’armistizio di Villa Giusti e sancendo la fine della Prima Guerra Mondiale. Dieci anni dopo, il Duca d’Aosta, che durante la Guerra era stato tra i più arditi condottieri, inaugurò questo monumento alla memoria, rileggendo il Bollettino della Vittoria, il documento sottoscritto al momento della pace del decennio precedente. Di fronte a lui, per la stragrande maggioranza, una folla tripudiante di reduci di guerra.
Non fece in tempo a stagliarsi nel panorama milanese, il Sacrario dei Caduti Milanesi, che fu colpito dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, ma ancora una volta assurse a simbolo di resistenza e fierezza. Fu ricostruito e addirittura ampliato nel 1973, permettendo il recupero di uno spazio che oggi ospita ben diecimila nomi incisi nel bronzo e i resti dei caduti, a tenere vive le gesta di chi ha dato la vita per la pace e la libertà.
Gunter Demnig è un artista tedesco. Nel 1992, a Colonia, diede luce al progetto delle pietre d’inciampo: l’apposizione di semplici placche in ottone, incise con il nome di ogni singolo deportato della Seconda Guerra Mondiale e la data della deportazione, sul selciato delle abitazioni da cui i perseguitati furono prelevati. L’obiettivo è quello di restituire all’umanità il ricordo dei singoli, ai quali addirittura il nome era stato cancellato perché vittime della follia. Attualmente esistono 75.000 pietre d’inciampo in tutta Europa, delle quali 90 a Milano: la prima fu posta nel gennaio del 2017 in Corso Magenta 55, davanti all’abitazione di Alberto Segre, padre della senatrice a vita Liliana.
“Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome” (Talmud)
“Metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna”. Furono le parole della contessa Paolina Baracca, madre di Francesco Baracca, quando nel 1923 conobbe Enzo Ferrari e rimase impressionata dal suo talento di pilota automobilistico. Il resto, come spesso si dice ma in questo caso davvero è così, è storia.
Il simbolo dell’italianità dei motori per eccellenza, il cavallino rampante della Ferrari, deriva infatti dallo stemma che Francesco Baracca aveva scelto per adornare i propri aerei. Francesco Baracca fu uno dei migliori aviatori che la storia dell’Esercito Italiano abbia mai raccontato: riconosciuto come Asso (almeno cinque combattimenti aerei vinti), era noto per il rispetto e l’umanità con cui si rapportava al nemico, tanto da arrivare a stringere la mano e rincuorare gli ufficiali stranieri che riusciva ad abbattere e fare prigionieri. “Miro all’apparecchio, non all’uomo”, era il suo mantra mentre era coinvolto in spericolate sparatorie in volo.
La storia del cavallino rimane ancora oggi avvolta da una patina di oscurità: potrebbe essere il simbolo del 2° Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, di cui Baracca faceva parte; oppure il simbolo della città di Stoccarda, di cui era originario il quinto pilota che Baracca abbatté per diventare ufficialmente “asso”, e del quale prese lo stemma in segno di rispetto. In origine il cavallino era rosso, poi tramutato in nero alla scomparsa di Baracca.
Fu durante una di queste azioni di combattimento, nel 1918 a Nervesa della Battaglia, che Baracca perse la vita. Insignito della Medaglia d’Oro al valore nella Prima Guerra Mondiale, nel 1931 alla sua memoria venne intitolata una piazza di Milano Ovest, dove ancora oggi si trova un suo mezzo busto in bronzo firmato da Silvio Monfrini, che lo ritrae a torso nudo, fiero e sprezzante del pericolo come era di solito. Sul piedistallo creato d aUlisse Stacchini (architetto della Stazione Centrale) si trova un bassorilievo, che rappresenta il cavallino rampante: una storia di valore e orgoglio, tramandata da uomini a loro modo valorosi.
Quando durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale le sirene tagliavano le nuvole a metà, i cittadini arrancavano verso i rifugi: noi non possiamo fare granché, nel nostro comfort, se non immaginare l’ansia che rimbalza nei timpani e il fiato che si accorcia a ogni secondo.
A Milano si contano 135 ricoveri, nessuno più iconico del numero 87. È nei sotterranei della scuola Giacomo Leopardi, che in origine era dedicata a Rosa Maltoni Mussolini, madre di Benito. Fu (ri)scoperto dalla Preside, Laura Barbirato, che volle indagare dopo aver letto un libro di Ermanno Olmi in cui veniva descritto proprio il suo istituto, e riuscì a renderlo visitabile nel 2011 dopo dieci anni di battaglie burocratiche.
Dieci stanze, cucina, bagno, brande, buchi, porte: tutto lasciato volutamente come allora, benché ripulito e almeno un minimo riordinato. Mille bambini e cinquecento adulti potevano occupare il ricovero, sistemavano banchi e sedie anche sottoterra per cercare di proseguire con le lezioni e non pensare a quello che succedeva sulle loro teste. E chissà quante storie e quanti suoni e quanti ricordi, sono conservati in ogni parete.
Dei suddetti rifugi sono inoltre rimasti, sparsi per la città, i segnali dipinti o incisi che ne indicavano la posizione. I condomini e i vicini che cercavano riparo avevano ben chiaro dove correre, appena udito il lacerante strillo delle sirene. Il problema, eventualmente, riguardava i soccorsi dopo i bombardamenti. La segnaletica serviva infatti ai pompieri e ai volontari per orientarsi e cercare in mezzo a macerie e portoni divelti, sperando di non arrivare troppo tardi: in Porta Lodovica e nei quartieri limitrofi, si trovano indicazioni ancora perfettamente chiare, e per qualche sinistro motivo quasi artistiche nel loro contorno da murales moderni.
Uno dei simboli meglio riusciti e meno volontari della fiera resilienza di Milano, dopo i terrificanti strascichi della Seconda Guerra Mondiale. In Piazza della Repubblica, dal lato di viale Montesanto, alcuni pali che sostengono i fili del tram presentano ancora dei fori causati dalle esplosioni. Uno in particolare sembra essere il più vecchio e colpito, quasi a fare da chioccia agli altri. Sono danni saggi e rugosi, ruvidi al tatto e traboccanti di sensazioni: provate a passare un dito sui bordi smerigliati di questi buchi, a guardarvi attraverso, a soffiarvi dentro. Provate solo a immedesimarvi in quei pomeriggi del ’43, a riascoltare i boati vibrare nel ferro e la disperazione impennarsi fino in cima ai tralicci. Oggi i pali sono ancora là, a combattere possenti ruggine e tempo, sperando che non vengano rimossi: ogni cicatrice è in realtà una lezione su cui ricostruire.
“Il valore non ha ideologia o colore”. Il Generale dei Bersaglieri Arnaldo Cassano, dopo 39 anni in servizio, è Presidente dell’Istituto del Nastro Azzurro di Milano, oltre che vice presidente nazionale onorario e Presidente del collegio nazionale dei Probiviri: il Nastro Azzurro è l’istituzione che tiene viva la memoria e la divulgazione dei decorati al valore militare d’Italia. “Non ho mai smesso di indossare l’uniforme”, sorride mentre racconta quasi a occhi chiusi i volti e le storie che corrispondono alle pergamene sulle pareti che lo circondano.
Nel 1923, nelle scuole di via Ariberto 5, i decorati della Prima Guerra Mondiale avevano formato la Sala Azzurra, dove raccogliere e tramandare le loro memorie; a inaugurarla fu Vittorio Emanuele III in persona, nel 1928. Quando l’edificio di via Ariberto fu bombardato nel corso del secondo conflitto mondiale, la raccolta fu trasferita in giro per la città: nel 1978 arriva alla Casa del Mutilato, dove ha sede l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra.
Da allora la si conosce come Galleria degli Eroi: un corridoio tappezzato di testimonianze valorose, che comprendono tutte le forze armate e tutti i gradi, partigiani inclusi. Cinquecentosette medaglie d’oro al valor militare sono affisse ai muri, a partire dalla prima (in realtà al valore non militare) del 1793, omaggiata a Domenico Millelire, nocchiero sardo che combattè Napoleone all’Isola della Maddalena. Nel 1833 nascono le decorazioni vere e proprie, istituite dai Savoia: la prima è conferita a Giovanni Battista Scapaccino (1834), ucciso perché continuò a inneggiare al re, quando gli fu intimato di gridare viva la Repubblica! (cisalpina).
Salvo d’Acquisto, Gabriele D’Annunzio, Giuseppe Garibaldi e altre centinaia di donne e uomini che si sono distinti nei secoli per le loro gesta e il loro ardore in tempo di guerra, cementati nella storia anche grazie a queste pergamene scritte a mano in carattere gotico, e all’impegno del Generale Cassano che qui è pronto ad accogliere chiunque voglia sapere di più sul passato del nostro paese.
Bellissima, solo dall’esterno. Quella che in precedenza era nota come Villa Fossati, divenne il palcoscenico di spettacoli lugubri e sadici, degni contenuti di un periodo storico che porta con sé solo vergogna e dolore. La villa fu sequestrata dallo squadrista Pietro Koch nel ’44, e utilizzata dalla sua omonima banda come quartier generale per le torture e i brutali interrogatori ai quali sottoponeva antifascisti e soggetti scomodi. Violenza e cocaina erano il menu di ogni giorno, del quale godevano gli invasati del regime e personalità note: pare che anche l’attore Osvaldo Valenti bazzicasse Koch e il suo drappello, per quanto poi liberato da qualsiasi accusa di associazione.
La banda Koch venne smantellata dopo pochi mesi di oscena esistenza: la villa tornò in possesso della famiglia Fossati, che si rifiutò però di essere accostata in ogni modo agli scempi trascorsi e cedette quindi l’immobile a una confraternita religiosa. Oggi è di proprietà di un ordine di suore: c’è un enorme lavoro di purificazione ancora da fare.
La mattina del 20 ottobre 1944, quello che all’epoca era il Comune autonomo di Gorla (oggi quartiere del Nord Est di Milano) fu travolto da una sequela di violentissime esplosioni, figlie di un bombardamento a tappeto da aprire dell’aviazione alleata. Per un errore di calcolo, un ordigno destinato a degli stabilimenti produttivi centrò in pieno una scuola elementare: fu un’autentica strage, con centottantaquattro bambini morti, insieme a quattordici insegnanti, quattro bidelli, la preside e un’infermiera.
La popolazione sconvolta reagì però immediatamente, quantomeno per tenere viva la memoria, e con questa la speranza: il suolo su cui sorgeva la scuola venne destinato alla vendita, ma il comitato del quartiere si oppose e ottenne di erigervi un monumento, realizzato nel 1952 dallo scultore Remo Brioschi (molti cittadini pagarono di tasca propria per la costruzione). ECCO LA GUERRA, recita l’iscrizione alle spalle della figura femminile che regge il corpo esanime di un bambino.
Oggi, al di sotto del monumento, è presente l’ossario dedicato ai piccoli martiri, con i corpi traslati qui dal cimitero di Greco, pochi anni dopo l’inaugurazione della statua. La nuova scuola elementare del quartiere, sorta in via Andrea Cesalpino, è intitolata ai bambini.
Sarà di certo più ridotta nelle dimensioni, rispetto alle altre metropoli europee cui viene spesso paragonata, eppure Milano non manca davvero di nulla. Per ogni momento della giornata, sia essa stressante o serena, piena o pigra, attesa o maledetta, ci sarà un luogo della città adatto a essere visitato.
Alcuni di questi vanno bene sempre. Tra palazzi storici e angoli di bellezza nascosta, si scorgono infatti dei giardini che sembrano bolle di tranquillità dove potersi rifugiare se tutt’intorno è troppo veloce, ritagliare uno spazio se invece si ricerca solo silenzio. E molti di questi scorci di quiete portano con sé storie inaspettate.
Per gioco, per amore o per interesse personale, ciascuno di noi ha probabilmente provato, almeno una volta nella vita, a coltivare una collezione. La sensazione di portare avanti e custodire una raccolta, che sia monotematica o varia, alimentandola per consegnarla forse ai posteri. E magari sarà durata molto meno di quanto ci saremmo aspettati o avremmo desiderato.
Milano racchiude invece una serie di musei, fondazioni, collezioni private di totale unicità: dalle raccolte di famiglie nobili, agli studi di designer e architetti che hanno tramandato le loro idee e i loro progetti, fino alle pietre miliari della cultura della città o a veri e propri luoghi di riflessione e contemplazione, artistica o introspettiva. Che si tratti di quadri, oggetti o anche solo memorabilia, l’intera città è disseminata di occasioni per conoscere più a fondo animi preziosi. Basta solo trovare la porta giusta.
Passeggiare per le strade di Milano può rivelarsi una straordinaria caccia al tesoro. Fondata dai Romani, del cui Impero d’Occidente fu capitale, divenne poi centro culturale ed economico di un certo rilievo nel periodo Rinascimentale. Con il passare dei secoli, le nuove costruzioni si sono sovrapposte alle antiche, come spesso succede nelle città ricche di storia, senza però per fortuna cancellarle del tutto.
Gli ariosi vialoni, o le strette stradine: ogni arteria di Milano potrebbe riservarvi sorprese di incredibile bellezza, se solo saprete dove andare a cercare. I portoni più anonimi potrebbero essere scrigni di ricchezza impensabili, e chiedere il permesso a un custode potrebbe essere un lasciapassare per un viaggio nel passato. A ridosso di chiese e monasteri, all’interno di abitazioni nobiliari, o semplicemente al centro di condomini privati: i cortili e i chiostri di Milano raccontano di vite trascorse, che ancora oggi fanno sognare.
Lo sfarzo di sale affrescate, l’emozione di cortili e portici ad archi, le storie intrise di leggenda che hanno visto famiglie potenti intrecciarsi con sovrani e popolani. Milano fu centro di estrema importanza nel commercio e nella società fin dal MedioEvo, e regnanti e ricchi non persero tempo a costruirsi palazzi che ne dimostrassero l’importanza.
Scoprite allora un itinerario che vi porterà in giro per gli edifici storici, che in passato furono abitati da stirpi di valorosi, spesso poi caduti in rovina; altri ancora sono ancora di proprietà degli eredi, che con più cognomi e più interessi oggi dedicano i propri spazi privati alla valorizzazione della bellezza e del lavoro degli artisti moderni.
Perdetevi nelle immense sale da ballo, arrampicatevi sugli scaloni d’onore, percorrete i corridoi tappezzati per rivivere le atmosfere di tempi che furono, quando la brama di potere e il desiderio di cultura si fondevano in una sola, affascinante e pericolosa energia. E magari potrete chiedervi come sarebbe stato, se a vivere in quei giorni foste stati voi.
Lacrime, apparizioni, guarigioni: l’appiglio per chi crede e non ha null’altro, il dubbio per chi vuole capire di più, quando da capire c’è forse nulla. Miracoli a Milano si sono visti sin dai tempi della sua fondazione, e nel corso dei secoli le storie si sono moltiplicate.
I protagonisti sono stati dei più disparati: operai zoppi, poveri buoi, parroci con il mal di gola. A volte è un atto di speranza, altre la speranza di un atto. E anche per chi proprio non concepisce la possibilità di avvenimenti superiori, magari è una buona idea far visita in questi luoghi. Non si sa mai che si possa cambiare opinione.
L’Uomo Universale, il genio che dipinse, scolpì, costruì, progettò, sconvolse e vide oltre. Leonardo da Vinci a Milano sostò eccome (1482-1499), in una finestra di vita che gli bastò per realizzare giusto una manciata di opere destinate a segnare la cultura dell’umanità. Ci era arrivato in realtà come messo, inviato da Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, per omaggiare Ludovico il Moro con il suono di una lira progettata da Leonardo stesso (perché sì, era anche un più che discreto musicista). Rimase in quella che allora era una delle più popolose città d’Europa per dodici anni: l’assurdo capolavoro del Cenacolo rimane senza dubbio la traccia più celebre del suo passaggio qui, ma da Vinci ha disseminato per Milano svariati tasselli che contribuiscono a comporre il rompicapo della sua vita.