Mentiremmo, se vi dicessimo che da subito siamo stati folgorati dalla bellezza di Milano, una volta trasferiti qui, ognuno per i propri diversi e simili motivi. Non ha di certo il fulgore di altre città italiane e del mondo, quel respirare armonia che riempie gli occhi di cartoline e i polmoni di parole. Milano ha però l’innegabile estetismo del nascosto, una sequela impensabile di angoli e dettagli e storie che ci passano sotto il naso e che noi, esotici, miopi e troppo spesso assuefatti dallo stereotipo del grigiore meneghino, lasciamo scorrere senza apprezzare.
Il centro, il punto di partenza per definizione. La Basilica Cattedrale Metropolitana della Natività della Beata Vergine Maria (quindi decisamente più comodo chiamarlo Duomo), la chiesa più grande d’Italia con i suoi quasi dodicimila metri quadri di superficie: per voi che avete già alzato il ditino, pronti a contestare, San Pietro è in Città del Vaticano. Polli.
Simbolo della città per eccellenza, si salvò pressoché intonso dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per la quale si rifece il trucco: le vetrate furono sostituite da enormi stuoli di tela, applicati in alcuni tratti da fazioni di cittadini comuni. La Madonnina, che non ha bisogno di presentazioni, fu ricoperta di stracci per evitare di riflettere la luce del sole ed evidenziarsi agli aviatori nemici.
La suddetta statuina (quattro metri e sedici centimetri di altezza per circa novecento chili, interamente in rame con anima d’acciaio, che sostituì quella in metallo negli anni Sessanta), è storicamente l’icona cittadina: una tradizione, che addirittura divenne legge durante il ventennio fascista, rendeva infatti impossibile costruire alcun edificio che fosse più alto della sommità dell’alabarda che la Madonna regge (e che peraltro è un parafulmine). Si derogò per la prima volta in maniera pittoresca, nel 1960, quando sulla sommità dell’appena inaugurato Grattacielo Pirelli venne posta una replica della Madonnina, per rispettare le usanze; lo stesso si è fatto per ciascuno dei successivi colossali palazzi della nuova Piazza Gae Aulenti (il Grattacielo Unicredit e la Torre Allianz).
Nota: Il Pirellone (via Fabio Filzi 22), facilmente riconoscibile dalla Stazione Centrale, nel 2002 venne centrato al ventiseiesimo piano da un velivolo monomotore. I sospetti di attentato, ventilati soprattutto data la vicinanza con l’11 settembre 2001, furono poi sopiti dalle indagini, che certificarono l’errore umano del conducente.
Furono necessari quasi sei secoli per portare a termine l’opera, o quantomeno arrivarci vicino: le impalcature di restauro sono praticamente onnipresenti, data la gigantesca mole della cattedrale che necessita di continui ritocchi. I lavori presero avvio nel 1386, come si legge da una lapide nella navata destra, sui resti di due basiliche, Santa Tecla e Santa Maria Maggiore, il primo ingegnere generale fu Simone da Orsenigo. Fu un momento storico annunciato con squilli importanti: papà Bonifacio IX dichiara Giubileo e invita i fedeli a donazioni e contributi (lo faranno tutti, dalle massaie ai mercanti più ricchi); Gian Galeazzo Visconti mostra i muscoli e mette a disposizione le cave di marmo di sua proprietà, esentasse. I blocchi arrivavano infatti con incise le iniziali AUF (ad usum fabricae), e da qui pare derivi il modo di dire milanese a ufo, a sbafo. Il marmo di Candoglia è divenuto uno dei tratti distintivi del Duomo, con le sue venature panna e violacee, insieme ai proverbiali tempi dilatati che la costruzione richiese. Ancora oggi i milanesi paragonano alla Fabbrica del Duomo un’attività particolarmente durevole.
Sono inoltre centotrentacinque le guglie, con annesse statue (che in tutto sono più di 3.400 tra interno ed esterno), che circondano l’edificio: dagli Sforza a Dante Alighieri, da Napoleone a Primo Carnera, i personaggi e gli oggetti più disparati sono rappresentati come gargoyles che sono lì a raccontare la storia passata di qui. Non perdetevi, infine, alcune chicche che valgono ogni centesimo del prezzo del biglietto.
Diciamo pure che i presagi non furono dei migliori: Giuseppe Mengoni, l’architetto e progettista che aveva firmato la costruzione della Galleria, precipitò da un’impalcatura durante l’ultima ispezione, alla vigilia dell’inaugurazione. Era l’ultimo giorno del 1877.
Ciononostante, il Salotto di Milano fece innamorare immediatamente la borghesia locale, che elesse la Galleria a passerella dove vedere ed essere visti. Sciure impellicciate e gentiluomini in frac, a camminare sottobraccio illuminati attraverso le vetrate, diretti verso i caffè e i negozi che fecero a gara per aprire sotto le volte in ferro (all’ingresso da Piazza del Duomo, nel 1916 aprì il Camparino in Galleria, imperdibile luogo sacro dell’aperitivo).
In qualche modo oggi è ancora così, un riflettore immaginario vi segue dall’alto per il tempo di uno sguardo in su, e soprattutto un occhio al pavimento: al centro della Galleria c’è infatti un mosaico che ritrae un toro, curiosamente liso proprio dove non si dovrebbe mai essere lisi. Pare sia di buon auspicio piantare lì un tallone e fare tre giri su se stessi, come ad apprezzare la storia e la bellezza di un secolo e mezzo fa, tutte in una volta.
Il tempio di un’arte immortale, palcoscenico firmato e calcato dagli Dèi di musica e spettacolo. L’ombelico dell’opera, luogo di meraviglia e mondanità; paradiso di adorazione nel successo, arena di spietata severità nel fiasco. Fu voluto dal Conte Gian Giacomo III Durini (della stessa famiglia che tirò su questo gioiellino) e inaugurato nel 1778 con L’Europa Riconosciuta di Salieri: la Scala, che deve il suo nome alla chiesa di Santa Maria della Scala di cui ha preso il posto, è il teatro che alza il sipario (quello originale fu disegnato dall’abate Parini, che fu pagato con una tabacchiera d’oro) nei sogni di qualsiasi musicista, attore, ballerino. Realizzato dall’architetto Piermarini (cui andarono invece millecinquecento zecchini), sul legno di questo scenario sono passate le orme delle leggende. In ogni senso: il ridotto dei teatri era l’unico luogo in cui il gioco d’azzardo era permesso, e un giovanissimo Alessandro Manzoni fu spesso beccato a cedere al vizio.
Fu inoltre tra i primissimi edifici a essere illuminato dall’elettricità: nell’area delimitata dalle attuali via Agnello e via Santa Radegonda, nel 1883 venne infatti attivata una centrale termoelettrica, la prima in Europa (la seconda al mondo dopo New York), poi dismessa a inizio Novecento. I bombardamenti dell’agosto 1943 segnarono duramente il Teatro, del quale rimasero intatti soltanto palcoscenico e mura: la giunta milanese scelse di rinnovarlo immediatamente, lanciando un forte segnale di ripresa in un momento storico di ineguagliata durezza. Nel ’46 La Scala era di nuovo operativa, con il ritorno sfavillante dell’immenso Arturo Toscanini, che si era autoesiliato negli Stati Uniti dati i suoi apertissimi contrasti con il fascismo. Nel corso degli anni fu luogo simbolo delle evoluzioni civili e del progresso che arrivava ovunque, dalla contestazione studentesca del ’68, con il lancio di uova a inzaccherare le pellicce e gli smoking degli spettatori in arrivo, al dicembre del ’76, la prima trasmissione di uno spettacolo teatrale in televisione. Nel 2004 riapre dopo tre stagioni di “trasloco” al Teatro degli Arcimboldi per ragioni di ammodernamento: in scena, come più di duecento anni prima, l’Europa riconosciuta.
Per un’esperienza da tramandare ai nipotini potreste pensare di battagliare per un biglietto alla prima, che si tiene ogni 7 dicembre, nel giorno del patrono Sant’Ambroeus: ma per evitare di indebitarvi (per quanto giustificatamente), vi suggeriamo invece di vivere la Scala nella sua anima vera e propria. Visitandola cioè di giorno, grazie all’accesso permesso in orario di riposo dal Museo della Scala; e soprattutto sbirciando nella chicca assoluta, dall’altra parte della città: i Laboratori Ansaldo (via Bergognone 35), dove le idee prendono forma. Attraverso i tre padiglioni (l’ultimo dei quali disponibile per feste ed eventi) potrete infatti assistere alla progettazione, il disegno e la realizzazione di tutto quello che rende uno spettacolo, per l’appunto, uno spettacolo: falegnami, fabbri, sarti, registi. Le menti di uno dei teatri più belli del mondo sono tutte qui.
La storia di Milano, che come potete leggere qui va perdendosi fino in epoca Romana, è stata profondamente segnata dalla dinastia di due famiglie. I Visconti, prima di tutto, la cui casata fu avviata dal vescovo Ottone, che cacciò il precedente signore di Milano nel 1277 e mosse i primi passi di un cammino destinato a durare secoli: fu il di lui pronipote Galeazzo II, intorno al 1370, a far costruire le basi di un castello medioevale, denominato di Porta Giovia perché in corrispondenza di uno degli accessi alla città in uso sotto Diocleziano (conosciuto come Giovio, appunto).
Con il passare degli anni, il potere della famiglia Visconti andava aumentando: nacque un vero e proprio ducato (Gian Galeazzo fu primo duca di Milano nel 1395), che raggiunse l’apice con lo scollinare oltre il ‘400, prima di vedere una rovinosa implosione con l’insurrezione della Repubblica Ambrosiana. Il Castello seguì le sorti dei regnanti: venne ingrandito, abbellito, anche tecnologicamente fortificato, per poi essere raso al suolo dagli insorti nel 1447. L’Ambrosiana era composta da un manipolo di nobili e colti, principalmente provenienti da Pavia, che si impossessò del comando di Milano, breve ma intenso.
Per poter affermarsi militarmente, i rivoltosi chiesero aiuto a Francesco Sforza, mercenario sposo dell’ultima erede viscontea, Bianca Maria, e capostipite della seconda famiglia più influente della storia cittadina. Il quale, genio, dapprima accettò l’incaricò, poi voltò gabbana e attaccò con i suoi uomini (o minacciò di farlo) la stessa Milano, che dopo appena tre anni di Repubblica si vide costretta a cedere allo Sforza i pieni poteri. Fu lui a ricostruire il Castello, dandogli il nome e contribuendo a renderlo un’autentica fortezza, poi divenuta simbolo di Milano e dimora dei generali che sono passati di qui, da Napoleone Bonaparte, che pure ne ordinò lo smantellamento parziale, a Josef Radetsky, che durante le cinque giornate di Milano lo usò tristemente per bombardare la città intera.
Proprio a causa del collegamento ideale tra Castello e dominazione straniera, la cittadinanza milanese spingeva per la demolizione; fu l’illuminato architetto Luca Beltrami a opporsi, e dedicare un trentennio della propria vita, a partire dal 1184, al restauro di questo simbolo storico di Milano, conservandone anima e impatto, andando a ricercare comparazioni con altre residenze viscontee e sforzesche.
Oggi è uno dei punti chiave per un tour di Milano che si rispetti: intanto perché uno degli ingressi al Parco Sempione, polmone milanese per eccellenza. Poi perché dal 1900 è un polo museale che conserva al suo interno vari indirizzi (Museo di Arte Antica, degli Strumenti Musicali, Pinacoteca) e alcuni pezzi di rara bellezza e importanza, come il Codice Trivulziano di Leonardo da Vinci, o la mitica Pietà Rondanini di Michelangelo: a proposito della quale, chi trova il volto nascosto vince un giro al bar offerto da noi.
D’accordo che l’avrete studiata nelle ore di storia dell’arte a scuola e che è una delle opere più celebri di ogni epoca. Va bene che è tornata alla ribalta a inizio anni Duemila, come se ne avesse avuto bisogno, quando quel mattacchione di Dan Brown ha deciso di metterla al centro del caso letterario del secolo.
Ma vederla dal vivo è un’altra cosa: passare nelle scatole in vetro automatico prima di entrare nel refettorio, e nel mentre leggere le assurde vicissitudini di una gemma senza simili né risposte. E sedersi per i quindici minuti concessi, senza parlare, per capire se davvero Maria Maddalena, se davvero Giuda, se davvero il Graal. Oppure tacere e sognare.
Cercare di mettersi nei panni del Genio, che per una volta si rivelò fallace, quando si rese conto che la sua tecnica di pittura mista a uovo era in realtà inadatta per la parete umida; il dipinto iniziò a deteriorarsi già poche ore dopo la sua realizzazione, una fuga dal tempo che portò l’opera a essere una tavolozza di macchie e nulla più. C’è voluto un cinquantennio di continuo restauro per poter avere quello che abbiamo oggi. Per fortuna.
Immaginare il degrado cui gli apostoli hanno assistito inermi e silenti da quel muro: il refettorio fu magazzino per i prelati, stalla per le truppe di Napoleone, mentre davanti al capolavoro menti inconsapevoli e indegne passavano senza curarsene, anzi, contribuendo al suo vergognoso sciuparsi. Ritrovarsi a ideare le voci dei commensali, lo stupore timorato dopo il “uno di voi mi tradirà”: si è in uno stanzone climatizzato con altre dieci persone, ma la visione è così totalizzante che pare di essere parte della scena. Una bocca semiaperta, un dito alzato, una fronte inarcata.
E mentre si va via chiedersi come mai, anche se in fondo la risposta è chiara, dal bombardamento infernale che Milano subì durante la Seconda Guerra Mondiale, in Santa Maria delle Grazie si salvò praticamente solo la parete con il dipinto. Che tra l’altro era protetta da una gabbia di tubi Innocenti e una barricata in sacchi di sabbia che a vederla non dava poi troppe garanzie. C’è una foto in bianco e nero, all’esterno del refettorio verso l’uscita, che riprende l’impalcatura prima del disastro: sembra sarebbe bastato un soffio per buttarla giù. Eppure.
Nota: il Cenacolo Vinciano è così famoso (a ragione) da riuscire in qualche modo a mettere in ombra quell’altra meraviglia che è la Basilica di Santa Maria delle Grazie. Un gioiello dalla doppia anima, che fu pensata rinascimentale e poi a metà realizzata gotica (e si vede) e che a sua volta nasconde due perle: il Chiostro delle Rane, oltre l’altare a sinistra, e la sagrestia vecchia, aperta solo durante le mostre, pauroso esemplare di bellezza senza diritto di replica. Segreto nel segreto: dietro uno degli armadi oggi presenti nella sagrestia, si cela un passaggio nascosto oggi chiuso. Serviva a Ludovico il Moro a raggiungere i suoi ambienti indisturbato.
Se pensando a un cimitero, come prima immagine vi viene in mente un luogo lugubre, con la nebbiolina che cala tra lapidi e ululati, vi conviene venire a dare un’occhiata qui quanto prima. Il Cimitero Monumentale di Milano è in realtà un tripudio di bellezza, che si rincorre tra i vialoni e i prati disseminati di ricordi e storie familiari. Più che un cimitero, un autentico museo senza pareti, che custodisce cappelle nobili, sculture evocative e un’infinità di racconti e leggende.
Fu completato su progetto di Carlo Maciachini (cui è dedicata anche una fermata della metropolitana) tra il 1863 e il 1887, per quanto già operativo nel ’66. Il Comune sentì il bisogno di fondere dignità, decoro e soprattutto igiene alle sepolture: prima del Monumentale, la città era puntinata di vari piccoli camposanti, che rendevano l’atmosfera piuttosto insalubre. Il risultato, dopo svariati lavori di aggiunta e correzione nel corso degli anni, ammonta a 250.000 metri quadri destinati a raccogliere memorie e preghiere.
Ma anche architettura e arte: dal mastodontico e meraviglioso ingresso a fasce di marmo, passando per i colonnati di granito, fino alle singole camere di raccoglimento che le famiglie più nobili e in vista, ma anche gli sconosciuti abbienti e silenziosi, hanno voluto dedicare alla loro vita successiva. Sono presenti anche spazi per gli Acattolici e gli Israeliti.
Il Famedio è infine il fulcro di qualsiasi visita al Monumentale (gratuitamente accessibile in orari canonici, e su prenotazione percorribile con una guida): al centro si trova la tomba di Alessandro Manzoni, che di Milano è da considerarsi senza dubbio uno dei simboli. Con lui, in questi enormi spazi paradossalmente vitali e ariosi, sono sepolte alcune delle personalità che più hanno scritto la storia della milanesità nel mondo, come Carlo Cattaneo, Salvatore Quasimodo, Giorgio Gaber, Alda Merini, Dario Fo e Franca Rame.
Per provare a respirare l’aria di una Milano che adesso sembra del tutto sparita. Era un orto mal coltivato (braida è il nome d’origine), poi andò crescendo e migliorandosi fino a diventare il fulcro della vita intellettuale e artistica della città: le stradine incrociate di ciottoli e portoni sono rimaste là, insieme all’atmosfera d’elite che negli ultimi trent’anni si è definitivamente affermata.
Brera è oggi il quartiere enclave per eccellenza, nicchia contenuta e gaudente che risplende di altissime firme, localini caratteristici, musica. Non ha però, per fortuna, perso l’anima che l’ha resa così unica: è ancora il polo creativo più rimirato di Milano, con l’Accademia di Belle Arti a fare da principessa. Fondata nel 1776 da Maria Teresa d’Austria (il palazzo in cui risiede era già lì dal Seicento), è stata nel Diciannovesimo Secolo il centro di gravità di alcune delle più importanti manifestazioni culturali d’Europa: vale la pena di una visita anche solo per il suo chiostro, poetico e silenzioso (almeno quando non ci si festeggiano lauree), e arricchito dalla statua in bronzo di Napoleone in veste di Marte pacificatore, ormai icona di questo centro universitario e vivo.
Dall’Accademia si può accedere al maestoso Orto Botanico, graziosissimo angolo di quiete e scienza vasto 5000 metri quadri e recante almeno 300 specie, a sua volta voluto da Maria Teresa nel 1774: appena un anno dopo, vi furono trapiantati dalla Cina due esemplari di Gingko Biloba, che non si sono più mossi e dopo due secoli e mezzo sono ancora là. Oppure godere (ovviamente in silenzio!) dello splendore della Biblioteca Braidense, che conta oltre un milione e mezzo di titoli. E se davvero non dovesse bastarvi, la colonna sonora di tavolini e caffè non si ferma praticamente mai, appena fuori dal grande giardino: vi basterà sedervi un’ora per sentirvi come uno di quegli artisti che fecero Brera il gioiello che è.
Maestosa, splendida, amata. La Basilica dedicata al santo patrono di Milano (Sant’Ambroeus) dopo la sua morte, in quanto in realtà da lui stesso voluta: è una delle più antiche chiese della città, fatta costruire nel periodo in cui Mediolanum era capitale dell’Impero Romano d’Occidente (fu consacrata addirittura nel 386). In assoluto una delle visite (libere e gratuite) più emozionanti e godibili da poter fare: l’ingresso con il sontuoso quadriportico è una visione imponente, ancora più profondo se passeggiato in silenzio durante le ore del mattino, nel corso della settimana.
Una volta dentro, sentitevi pure spaesati e persi in questo enorme scrigno di storia, prima di proseguire verso la punta di diamante della Basilica: l’altare maggiore, realizzato a metà dell’800 (non milleottocento!) per celebrare il Santo. Proprio al di sotto, in una cripta, sono contenute le sue spoglie, insieme a quelle dei fratelli martiri Gervaso e Protaso. Intarsiato, decorato e dorato, è uno dei simboli più pregni di significato dell’intero edificio. Non l’unico con una certa storia, però.
Divertitevi infatti a scovare una colonna di granito, che sulla sommità ha incastonato un serpente in bronzo. Pare risalga al 1008, dono dell’imperatore bizantino Basilio II, e si rifaccia al leggendario Serpente di Mosè; fate i bravi quando ci passate davanti, perché che ci crediate o meno, è ancora oggi destinatario di preghiere sentitissime. La fine del mondo, a detta di chi ne sa, si verificherà quando il serpente striscerà via dalla colonna. Per un brividino ulteriore, vi basta uscire di nuovo e con le spalle all’ingresso, guardare alla vostra destra: troverete una colonna, che alla base mostra due fori perfetti e simmetrici. Li avrebbe lasciati il Diavolo, che tentando di incornare Sant’Ambrogio, prontissimo a evitarlo, finì conficcato direttamente lì.
A nessuno piacciono i Navigli. Eppure tutti li adorano. Non esiste anima che non vi possa raccontare di aver lasciato qui almeno una minuta porzione della propria esperienza milanese, che sia stata una vacanza di pochi giorni o un trasloco definitivo. La maggior parte dei trapiantati a Milano vi descriverà serate universitarie a prezzi onesti e paludosa afa estiva nel mezzo delle sessioni d’esami; quelli più in là con gli anni vi diranno che il delirio dei locali è insopportabile, che era meglio quando si stava peggio e tutto il resto. Inutile dirlo, non esiste una verità assoluta o un giudizio possibile.
I Navigli sono, e soprattutto sono stati, l’impianto cardiocircolatorio della città, quasi completamente invisibile oggi e molto spesso poco considerato, ma fondamentale alla crescita e allo sviluppo di Milano. Non soltanto economicamente, per la travolgente energia di vita di cui traboccano dal tardo pomeriggio, quando che piaccia o no attirano orde di umanità varia, grazie anche all’altrettanto varia proposta di ospitalità (capitanata da insegne come MaG e Rita); più di tutto, e meno notoriamente, per i Navigli è praticamente passata la grandezza meneghina, a partire da circa sette secoli fa.
Il Naviglio Grande, infatti, quello storicamente accostato alla vita notturna di Milano, fu reso navigabile a ridosso del 1300: fu l’inizio di una piccola ma decisiva rivoluzione per la vita cittadina, che grazie al nuovo sbocco avviò una scalata verso il progresso. Per le acque, spesso melmose, del fiumiciattolo passavano le merci più disparate, dai viveri alle stoffe ai materiali grezzi; chiatte silenziose che procedevano lentamente, tutto il giorno tutti i giorni, per poi ormeggiare e permettere lo scarico. Tale e tanto è stato il traffico fluviale, nei secoli, che ancora si possono vedere i segni degli ormeggi sulle balaustre in pietra (angolo con Via Valenza).
Fu tramite il Naviglio Grande che venne trasportato in città il marmo di Candoglia, necessario alla costruzione del Duomo (non mica cavoli): le cave appartenevano al Duca Gian Galeazzo Visconti, promulgatore dell’opera, che concesse quindi il trasporto del materiale senza dazi né tasse. Perché gli esattori riconoscessero la gratuità del trasporto, sul marmo veniva applicata la sigla AUF, iniziali di ad usum fabricae, ovvero destinate all’uso della Fabbrica (del Duomo): è per questo che oggi si dice fare qualcosa a ufo, ovvero a sbafo, senza pagare.
Alla Fabbrica fu inoltre donata, cento anni dopo, la Conca del Naviglio, uno dei primi sistemi di dighe e ripiani, che consentì al corso d’acqua di raggiungere il centro della città: in via Conca del Naviglio si può ancora trovare una lapide che certifica come Lodovico il Moro ne fece dono. I Navigli proseguirono la loro funzione fino addirittura al 1979, quando il 31 marzo furono percorsi per l’ultima volta a scopo commerciale. Il trasporto su strada era diventato troppo più economico, e i tempi correvano: andò concludendosi una vera e propria era, già intaccata dall’interramento dei Navigli interni (oggi via Laghetto ricorda quello che era appunto un bacino d’acqua). Ciononostante, associazioni come Amici dei Navigli combattono per riconsiderare il progetto dei canali cittadini. Rimane, lungo questi ultimi rivi, l’aria da acquerello che si può respirare al tramonto, o le luci pendenti sotto Natale, i mercatini delle pulci l’ultima domenica del mese e lo struscio continuo di chi tra qualche anno racconterà dei propri ricordi sui Navigli. Non piacciono a nessuno, ma li adorano tutti.
Sarà di certo più ridotta nelle dimensioni, rispetto alle altre metropoli europee cui viene spesso paragonata, eppure Milano non manca davvero di nulla. Per ogni momento della giornata, sia essa stressante o serena, piena o pigra, attesa o maledetta, ci sarà un luogo della città adatto a essere visitato.
Alcuni di questi vanno bene sempre. Tra palazzi storici e angoli di bellezza nascosta, si scorgono infatti dei giardini che sembrano bolle di tranquillità dove potersi rifugiare se tutt’intorno è troppo veloce, ritagliare uno spazio se invece si ricerca solo silenzio. E molti di questi scorci di quiete portano con sé storie inaspettate.
Per gioco, per amore o per interesse personale, ciascuno di noi ha probabilmente provato, almeno una volta nella vita, a coltivare una collezione. La sensazione di portare avanti e custodire una raccolta, che sia monotematica o varia, alimentandola per consegnarla forse ai posteri. E magari sarà durata molto meno di quanto ci saremmo aspettati o avremmo desiderato.
Milano racchiude invece una serie di musei, fondazioni, collezioni private di totale unicità: dalle raccolte di famiglie nobili, agli studi di designer e architetti che hanno tramandato le loro idee e i loro progetti, fino alle pietre miliari della cultura della città o a veri e propri luoghi di riflessione e contemplazione, artistica o introspettiva. Che si tratti di quadri, oggetti o anche solo memorabilia, l’intera città è disseminata di occasioni per conoscere più a fondo animi preziosi. Basta solo trovare la porta giusta.
Passeggiare per le strade di Milano può rivelarsi una straordinaria caccia al tesoro. Fondata dai Romani, del cui Impero d’Occidente fu capitale, divenne poi centro culturale ed economico di un certo rilievo nel periodo Rinascimentale. Con il passare dei secoli, le nuove costruzioni si sono sovrapposte alle antiche, come spesso succede nelle città ricche di storia, senza però per fortuna cancellarle del tutto.
Gli ariosi vialoni, o le strette stradine: ogni arteria di Milano potrebbe riservarvi sorprese di incredibile bellezza, se solo saprete dove andare a cercare. I portoni più anonimi potrebbero essere scrigni di ricchezza impensabili, e chiedere il permesso a un custode potrebbe essere un lasciapassare per un viaggio nel passato. A ridosso di chiese e monasteri, all’interno di abitazioni nobiliari, o semplicemente al centro di condomini privati: i cortili e i chiostri di Milano raccontano di vite trascorse, che ancora oggi fanno sognare.
Lo sfarzo di sale affrescate, l’emozione di cortili e portici ad archi, le storie intrise di leggenda che hanno visto famiglie potenti intrecciarsi con sovrani e popolani. Milano fu centro di estrema importanza nel commercio e nella società fin dal MedioEvo, e regnanti e ricchi non persero tempo a costruirsi palazzi che ne dimostrassero l’importanza.
Scoprite allora un itinerario che vi porterà in giro per gli edifici storici, che in passato furono abitati da stirpi di valorosi, spesso poi caduti in rovina; altri ancora sono ancora di proprietà degli eredi, che con più cognomi e più interessi oggi dedicano i propri spazi privati alla valorizzazione della bellezza e del lavoro degli artisti moderni.
Perdetevi nelle immense sale da ballo, arrampicatevi sugli scaloni d’onore, percorrete i corridoi tappezzati per rivivere le atmosfere di tempi che furono, quando la brama di potere e il desiderio di cultura si fondevano in una sola, affascinante e pericolosa energia. E magari potrete chiedervi come sarebbe stato, se a vivere in quei giorni foste stati voi.
Lacrime, apparizioni, guarigioni: l’appiglio per chi crede e non ha null’altro, il dubbio per chi vuole capire di più, quando da capire c’è forse nulla. Miracoli a Milano si sono visti sin dai tempi della sua fondazione, e nel corso dei secoli le storie si sono moltiplicate.
I protagonisti sono stati dei più disparati: operai zoppi, poveri buoi, parroci con il mal di gola. A volte è un atto di speranza, altre la speranza di un atto. E anche per chi proprio non concepisce la possibilità di avvenimenti superiori, magari è una buona idea far visita in questi luoghi. Non si sa mai che si possa cambiare opinione.
L’Uomo Universale, il genio che dipinse, scolpì, costruì, progettò, sconvolse e vide oltre. Leonardo da Vinci a Milano sostò eccome (1482-1499), in una finestra di vita che gli bastò per realizzare giusto una manciata di opere destinate a segnare la cultura dell’umanità. Ci era arrivato in realtà come messo, inviato da Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, per omaggiare Ludovico il Moro con il suono di una lira progettata da Leonardo stesso (perché sì, era anche un più che discreto musicista). Rimase in quella che allora era una delle più popolose città d’Europa per dodici anni: l’assurdo capolavoro del Cenacolo rimane senza dubbio la traccia più celebre del suo passaggio qui, ma da Vinci ha disseminato per Milano svariati tasselli che contribuiscono a comporre il rompicapo della sua vita.