La figura del mentore, che Lauren Mote scandiva con l’acronimo Method, Ego, Necessity, Time, Optimization, Responsibility (potremmo definire auto-esplicativo oltre ogni modo) è individuabile ovunque: “Sta al mentore comprendere le necessità dell’allievo?”, ha chiesto un riccioluto spettatore in prima fila. “No, sta all’allievo comprendere le proprie necessità, e trovare un mentore che lo ispiri. Al mentore sta il saper tirar fuori il meglio dall’allievo”, rispondeva Perrone, impeccabile nel suo completo in doppio petto (per una volta privo di scarpe classiche, ma in sneakers). È una questione di istinti, di comunione di intenti, di empatia: non si chiede di poter essere instradati, lo si desidera e ci si impegna per esserlo. In quale altro corso di studio si ritrova così a chiare lettere, il rapporto naturale, umano, tra chi può insegnare e chi può apprendere?
Orgoglio e umiltà sono al tempo stesso nemici giurati e compagni inseparabili. Serve l’uno per fronteggiare la scarsa conoscenza del nostro settore e combattere perché si divulghi al meglio; serve l’altra per riconoscere quanto prezioso sia ispirarsi a colleghi (perché sulla carta lo sono) che hanno già conseguito successo e soddisfazione, e a loro volta hanno l’umiltà per trasmetterla a chiunque dimostri di esserne meritevole. Perché come ha detto Monica Berg, un allievo “deve anche essere disposto a dare, non solo ad apprendere”. È uno dei passi fondamentali ed epocali che il movimento bar italiano dovrebbe compiere: senza una adeguata formazione, che passa per figure di riferimento e frequentazione di eventi come quello di Atene, non si crescerà mai come osti, e ancora meno si riuscirà a scardinare la percezione che il pubblico (che ci si ricordi, è quello che alla fine permette di pagare le bollette) ha di baristi e personale di sala.
Eventi di settore come l’Athens Bar Show, in generale, sono occasioni senza prezzo per tessere tele di rapporti sociali, fare esperienza in bar di caratura mondiale (Baba au Rum, Clumsies, Line: Atene ne ha tre tra i primi cinquanta del mondo, uno più strepitoso dell’altro) e consolidare le proprie nozioni, se si impara dove attingere. E cosa ne sapete che la vostra prossima ricetta troverà la quadratura alle quattro del mattino, quando gomito (altino di certo) a gomito con un bartender che parla un’altra lingua, vi illuminerete a discutere dei vostri tentativi. O magari, da consumatori, vi capiterà di percepire l’elettricità e la complicità di due lavoratori che senza parlare si muovono come ingranaggi a incastro, allenati in anni di consigli e lezioni silenziose. La professionalità al bar, e di conseguenza tutto ciò che serve per ottenerla e custodirla, è una realtà che va coltivata e raccontata, perché anche chi al bar non lavora, possa affrontarla. Formarsi, crederci, formare, informare. Come ha detto, ancora, Monica Berg: “Competenza e ignoranza sono altrettanto dispendiose. Scegliete voi da che lato stare”.