Chiarissima, inoltre, è la preponderanza di un’impostazione più da cucina che da bar, se si consente il non-paragone: la figura del bartender viene associata a quella del cuoco, con sessioni di preparazione infinite, impiego profondo di frutta, radici, cibi, che vengono trattati con tecniche rarissimamente disponibili nella vita reale, dall’azoto liquido al distillatore istantaneo. Il barista passa per quello che non è, una sorta di scienziato pazzo che sbuca tra nuvole di fumo e occhiali protettivi; francamente non veritiero, e un colpo difficile da incassare per i professionisti italiani, che già fanno una fatica di Ercole per svincolare l’immagine del bar da quella del luogo di perdizione per eccellenza. Un discreto polverone, poi, si è già alzato sulla scarsa aderenza di alcune ricette classiche viste in trasmissione, su tutte un New York Sour che viene realizzato con succo d’arancia; critica che può starci, la comunità miscelatrice nostrana è sempre prontissima ad alzare il ditino e fare la lezione, ma sarebbe interessante vedere quanti di quelli che si sono inalberati conoscono la differenza tra New York Sour e New Yorker. Si divaga, in ogni caso.
Dunque, il nocciolo della questione: non è questo il bar che farebbe bene comunicare. Tutto l’uragano di affumicatori, abbattiori, gelificazioni che si vede in Drink Masters è roba che in minuscola parte può interessare il consumatore medio; se al centro dell’utenza del bar deve essere l’esperienza in toto, non si può prescindere dal divulgare l’importanza dell’intero contesto, e limitarsi esclusivamente a un drink che sia prima di tutto bello, poi chissà se anche buono. Ci si fa un cuore così (ovunque nel mondo) a sottolineare come il cocktail sia in realtà l’ultimo dei dettagli da assaporare in un bar, che prima propone atmosfera, sorrisi, persone; spingere così tanto su estremismi tecnici (e tecnologici) e sull’estetica, appare come uno scivolone non da poco. Potenzialmente, peraltro, andando a danneggiare sia bartender che bevitori: i primi perché ben consapevoli di quanto il programma sia molto poco fedele alla realtà del lavoro al bar (sarebbe stato ben meglio un documentario di alta qualità su cosa succede prima e dopo un servizio, tra preparazioni, notte fonda, potenziali eccessi, psicologie fragili e così via), i secondi perché magari stufi, dopo una certa, di vedere sempre le stesse cose o quasi.